Il caldo di giugno e luglio è ormai un ricordo e il sole, oggi, è coperto da un minaccioso cumulonembo che ha l’aria di uno che la tiene da troppo tempo, ma la temperatura a quest’ora del pomeriggio è ancora gradevole e non riesco a capire perché io sono qui con una felpa e ci sono tutti questi ragazzi con i giubbotti pesanti, uguali tra loro. L’unica differenza è che quelli con più gel in testa portano i gonfi giacconi rovesciati, con la parte arancione in vista, gli altri mostrano il lato verde scuro. Cumulonembi. Che soddisfazione, l’interrogazione in scienze di ieri, con quella stronza della Torielli che ha provato a farmi le domande a sorpresa per farmi iniziare l’anno male. È che la scuola è troppo facile, e se ho l’aria di uno che non studia è perché è vero. Ognuno può avere ragioni più o meno valide per non studiare. Quel tizio lì alla cassa con il giubbotto dal verso arancione esposto e una sigaretta in mano e la ragazza (bella) tenuta stretta con l’altra e i capelli ingellatissimi e gli anfibi con tre centimetri di suola e le punte di metallo lucido probabilmente non studia molto, nemmeno lui. Anzi, mi sa che andava alla mia scuola, ha tipo sedici anni. L’anno scorso faceva seconda, in qualche sezione al terzo piano, e ora tira fuori centomila lire dal portafogli. Io centomila lire le ho viste a natale un paio di volte. E le ho giusto viste per un istante perché mio padre dopo tre secondi le ha ritirate in tasca e dopo due giorni le ha seppellite in qualche cavolo di buono fruttifero vincolato fino al duemilaetrecento. Quindi, secondo i miei calcoli questo tizio al quinto anno di scuola media si sarà sentito dire la famosa frase «adesso tu vai a lavorare», ecco perché esibisce banconote con questa finta disinvoltura da piccolo boss di quartiere. Io invece i soldi li ho finiti, strano. Vediamo, le trentamila lire settimanali visto che non fumo non bevo non ho un motorino a cui riempire il serbatoio ma vado in giro con la bici -che tanto abito in una città larga sì e no quattro chilometri-, insomma dove le ho spese? Un cd, quattro numeri vecchi di Tex Willer, due giri sulle montagne russe. Però vorrei fare un paio di corse, ancora. Devo provare a chiedere un prestito a Zanetti. Zanetti studia, nonostante questo è sempre il più ricco di tutti, per sicurezza. Nel senso che suo padre gli dice sempre «tieni anche questi, per sicurezza», e gli piazza in mano una centomila, così, se per caso gli rubassero la bici e dovesse tornare a casa in taxi. Il problema è che lui è avaro e si inventa sempre delle scuse, quindi probabilmente non mi presterà niente. All’unisono tutte le vetture rallentano e in un attimo sono ferme, molti ragazzi scendono e tornano a bordo pista, qualcuno si massaggia il collo, dice «Ammazza, che botta», o «Al prossimo giro vedi!», altri ridono, ma sono tutti contenti. Zanetti mi raggiunge, gli dico «Oh, Zà, prestami un paio di gettoni». Lui ci pensa un attimo, abbassa lo sguardo, risponde «Eeeh, non so se posso». «E perché? Hai un sacco di soldi» «Eh lo so ma c’è mia nonna che non sta bene, e mio papà ha detto che forse glieli devo ridare per le cure, che costano»
Bisogna ammettere che io una scusa così idiota non l’avevo mai sentita, resto senza parole. Ci ha messo dentro anche il dramma familiare, per impedirmi di ribattere. Sta iniziando un nuovo giro, la musica disco viene a tratti surclassata dalla voce del giostraio al microfono, che dice «Forza ragazziii! Tipeeee! Fatevi un girooo! Si parteeee!», trascinando sempre le vocali finali delle frasi. Intorno al piccolo boss ingellato ci sono tre o quattro ragazzi che lo pregano di fare un giro, insistono, lui fa segno di no con la testa, sorride, indica la ragazza e poi la nuova sigaretta appena accesa, non capisco cosa si stiano dicendo ma sembra di vedere un campetto di calcio di periferia dove i presenti si sono appena accorti che a bordo campo c’è Maradona e lo supplicano di fare due tiri con loro. Finalmente sembra decidersi, consegna letteralmente la ragazza e la sigaretta a quello che pare il suo secondo, infila un paio di occhiali da sole e sale su una delle vetture, sedendosi come se dovesse fare un giro in costa azzurra su una Ferrari decappottabile. La sua ragazza, appena lui se ne va, slaccia la felpa, e rimane con un top quasi trasparente. Resto imbambolato per un po’ di secondi. Anche Zanetti se n’è accorto, e anche Carnevale, che era andato a fare pipì mezz’ora fa, è appena tornato. È un po’ grasso e ha sempre l’aria di uno che ti sta prendendo per il culo. Ha in mano un peluche a forma di orso grosso come una poltrona, dice «l’ho vinto sparando coi fucili alle lattine. Madonna che figa quella!», poi decide di fare un giro sull’autoscontro, mettendo il peluche al posto di guida e facendo finta di essere il passeggero. Appena il giostraio ridà elettricità tutte le vetture ripartono. Il boss prende possesso della pista speronando chiunque, negli istanti che precedono gli impatti dà dei colpi di reni per aumentare la spinta, poi guarda verso i suoi amici facendo dei gesti che non conosco, ma sembra vogliano dire che lui è il più figo. Loro sono in adorazione, a un certo punto lui fa quasi volare fuori dalla vettura un ragazzo e parte l’applauso. Quell’altro rimane incastrato tra il bordo della pista e le auto posteggiate e decide di levarsi di torno, scende dalla macchinina e abbandona la pista. Carnevale nel frattempo ha battezzato il suo peluche, gli ha messo in testa un berretto trovato chissà dove e lo incita, in qualità di autista, a fare dei danni. «Vai, Battista, colpisci quello!», urla. Ha trovato una strana posizione per cui guida con la mano sotto il volante, e sembra davvero che a pilotare sia l’orso Battista, a cui Carnevale grida anche «Dammi un cinque!», dopo qualche manovra particolarmente azzeccata. Se avessi deciso io di entrare in pista facendo finta di far guidare un fantoccio a forma di orso, credo che avrebbero fermato la corsa e mi avrebbero sbattuto fuori a calci nel sedere. Invece lui ha quest’aria strana, il modo in cui ti guarda, pensi sempre che se gli dici qualcosa stai sbagliando tu. Tutto sommato, nonostante la follia, sembra impegnarsi più che altro nel fare brillanti manovre di disimpegno, invece di cercare lo scontro diretto con gli altri piloti. Poi, verso la fine della corsa, il boss sta per attaccare una vettura verde acqua con su due ragazze, probabilmente il numero conclusivo del suo show. Battista, volevo dire Carnevale, invece, sta gironzolando allegramente ai bordi della pista salutando con la mano il pubblico che, bisogna ammetterlo, lo guarda come se fosse un idiota. Poi non si capisce bene come, la vettura verde acqua si sposta all’improvviso, il boss sterza per non mancarla, perde velocità, Battista e Carnevale hanno girato in direzione opposta ma compiono una curva dolce lanciata e veloce, lo scontro è inevitabile e dopo una botta secca secca il boss è inchiodato al bordo con la macchinina tutta sollevata e gli occhiali da sole che sono volati fuori, oltre la giostra, nella stradina sterrata e polverosa.
La corrente si stacca, per un attimo finisce anche la musica. Carnevale non se n’è neanche accorto, sta venendo verso di noi, con Battista, dice «Oh, c’era uno che sembrava un pinguino», dà un altro cinque a Battista, tira fuori da dietro l’orecchio del pupazzo tre gettoni, li ha trovati sul sedile della vettura. Il boss si sta rivestendo, ha lo sguardo furente e fisso su Carnevale. Sta fumando da narici e orecchie, senza bisogno di un’altra sigaretta. Ho il presentimento che le cose si stiano mettendo male, dico «Andiamo al Tagadà?», cerco di allontanarci dal pericolo, Carnevale ha una pessima idea. «Ma quella tipa figa di prima col top dov’è?», chiede, guardandosi intorno e finalmente incrociando il suo sguardo, e ovviamente quello del suo fidanzato, tornato a controllare il territorio dopo aver raccolto gli occhiali nella polvere. Ecco, lo sapevo. Ora basta contare. Uno, due, tre…
«Cazzo ti guardi?». Il tizio avanza minaccioso verso di noi, non aspettava che una minima scusa per vendicarsi. Non ho bisogno di essere un indovino per sapere che Carnevale non risponderà nel modo migliore. «No, ma io non sto guardando te, sto guardando lei», dice. Ci siamo,si balla. Il piccolo boss è spiazzato dalla risposta, non si aspettava una reazione di questo tipo ma ci mette poco a riprendere il suo schema di attacco.
«Vuoi botte?». Dice proprio così. Vuoi botte. È probabile che l’omissione dell’articolo faccia parte di un gergo di battaglia particolare, non saprei. Nel complesso suona minaccioso, tanto più che il piccolo boss sembra abituato a queste situazioni e nonostante la bassa statura sembra più portato allo scontro fisico rispetto a Carnevale. Insomma un figlio della strada con le mani sporche di olio da motore contro un futuro giornalista con le mani appiccicose di marmellata delle merendine. Carnevale dà l’impressione di non rendersi conto del pericolo, come se osservasse la scena protetto da un vetro antiproiettile, perché continua a scavarsi la fossa con evidente gusto. «Pesce lesso», dice. Poi insiste. «Cagnotto». È spacciato, bisogna salvarlo. Appena prima che il piccolo boss gli si scagli contro, mi lancio in mezzo in un disperato tentativo di riappacificazione. «Dai, ragazzi, smettetela», esclamo fingendo un’aria giuliva un po’ ebete.
«Perché se no?»
Ok, questa non me l’aspettavo. Io stavo dando un consiglio sensato, invece questo gorillotto si è improvvisamente disinteressato di Carnevale e sta guardando male me, soffiando aria dalle narici come un toro. È chiaro che vuole del sangue, non importa di chi. Tra parentesi, vorrei sottolineare il solito culo di Carnevale che ne uscirà pulito anche questa volta, grazie al mio involontario sacrificio. Sulla lapide voglio la scritta “cadde eroicamente in battaglia salvando un compagno”. Bene, quindi io adesso cosa gli rispondo a questo? Suppongo che mi abbia fatto quella domanda senza volere una risposta razionale. Cioè, se io dovessi dirgli «perché se no finisce che fate a pugni e tu poi lo picchi perché lui è un po’ grasso e certo, l’abito non fa il monaco mio caro, ma tu hai un’aria da tamarro che la metà basta e io, povera vittima degli stereotipi, non mi stupirei se tu avessi in tasca anche un coltello e glielo piantassi nel suo pingue ventre», ecco se io gli rispondessi così non credo che mi salverei. Sarebbe la verità, ma non credo voglia la verità. Devo trovare un’altra risposta. Questa parte viene descritta in slow motion, in realtà il problema è che nel mio cervello tutto questo ragionamento si svolge in meno di un secondo, perché io qualcosa gli devo dire a questo quadrupede eretto per sbaglio. Inizio a vagliare tutte le risposte possibili, nessuna va bene, il mio cervello frulla come il cartello dei treni in arrivo alla stazione, poi dalla mia bocca esce questa frase: «perché se no ti spacco i denti».
L’ho detto? Ho detto veramente questa cazzata? Ma perché? Non ha senso, da dove mi è uscita? E in ogni caso perché non imparo a farmi gli affari miei? Il tizio mi rivolge un’espressione talmente vacua che mi scopro a guardargli le mani per vedere se ha i pollici opponibili. Poi elabora l’informazione ricevuta e la infila come il pezzo finale del puzzle in uno dei suoi schemi mentali preferiti, gli occhi hanno un primitivo bagliore. «Ah sì? Allora spaccameli, tra mezz’ora, ti aspetto fuori, al parcheggio delle biciclette» Prende per mano la ragazza, e se ne va. Mi tremano le gambe. La prima idea è quella di scappare, del resto ho questa grande occasione, mi basta correre al parcheggio, saltare in sella alla mia bmx, iniziare a pedalare, sparire all’orizzonte come Lucky Luke e non tornare mai più alle giostre. Beh, per quest’anno, almeno. Sì, è decisamente l’idea migliore. Poi mi volto e c’è Serafina. Serafina, a dispetto del nome improbabile, è la ragazza più bella della scuola, e ha lo stesso effetto su di me di un telecomando per le macchinine. Cioè può farmi fare quello che vuole, io la guardo e non capisco più niente. Dice «Sei il ragazzo più coraggioso del mondo! Io lo odio quello lì, una volta all’intervallo ha cercato di toccarmi». Va bene, addio ai miei piani di fuga. Ho anche la faccia tosta di sorriderle, e dirle «Ci penso io». Che pagliaccio. Carnevale nel frattempo se n’è andato un’altra volta. Zanetti invece cerca di farmi coraggio, a modo suo. «Guarda che quello secondo me ti ammazza».
Grazie Zà.
«No perché dicono che suo padre è stato anche in prigione».
Ottimo, vai avanti così.
«Una volta a scuola l’anno scorso gli hanno dato sette in condotta e lo hanno bocciato perché ha picchiato il prof di ginnastica».
«E basta Zanetti vuoi stare zitto?!?».
«Scusa».
Devo essermi incazzato un po’, Zanetti non parla più. Cerco di ragionare sulla situazione. Per essere onesti, non sono proprio quel prototipo di ragazzino sfigatissimo che non ha mai fatto a botte in vita sua. Diciamo che non mi piace e cerco sempre di evitarlo, ma qualche volta è successo, e sono sempre sopravvissuto. Per controllare i battiti del mio cuore cerco di ripassare mentalmente le risse a cui ho partecipato.
Rebuzzi, primo giorno di scuola della seconda. Arriviamo per ultimi, contemporaneamente, nella nuova classe, in ritardo come al solito. Due posti liberi: uno al primo banco, uno all’ultimo. Finire al primo banco vorrebbe dire essere sotto gli occhi dei professori per tutte le ore di lezione. Un incubo. Ci lanciamo come due falchi pecchiaioli verso il fondo della classe, arriviamo contemporaneamente, iniziamo a strapparci di mano la sedia e nel giro di cinque secondi ce le stiamo suonando di santa ragione. né vincitori né vinti, sospesi tutti e due per tre giorni appena è entrata la prof.
Mancano venticinque minuti.
Cesare, all’epoca della terza elementare. Vendiamo a un banchetto improvvisato due giornaletti, per la bellezza di duecento lire. Cento lire a testa. Prima di dividere i soldi, lui decide di comperare una bella pallina rimbalzerella di mia proprietà, per il valore di lire cento. Al momento di dividere quindi i soldi, il genio inizia a dire che a me spettano centocinquanta lire e a lui cinquanta. Non c’è verso di farlo ragionare, ha la bavetta agli angoli della bocca e il calcolo matematico così complesso gli ha fuso il cervello. Mi riprendo la pallina, e lui inizia a cercare di tirarmi delle mazzate. Non ci riesce perché è lento come un bradipo. Arriva sua madre e ci divide, salvo poi farsi spiegare la situazione e dire che ha ragione suo figlio. Che mondo di imbecilli. né vincitori né vinti, riprendo la pallina e me ne torno a casa, con la madre che mi grida dietro che sono un disonesto.
Manca un quarto d’ora.
Partita di calcio, quest’anno, campionato giovanissimi provinciale. Salto per colpire di testa un pallone crossato da Correzzola, ho i gomiti effettivamente un po’ larghi, centro in pieno la faccia di un avversario che inizia a rincorrermi dandomi del figlio di puttana. Mi raggiunge, mi tira un paio di ganci, gli restituisco il favore con un calcio nelle palle. né vincitori né vinti, espulsi tutti e due con due giornate di squalifica a me e tre a lui. Diciamo che ho vinto ai punti.
Mancano cinque minuti. Mi avvio.
Al parcheggio delle biciclette si è radunata una piccola folla. Incredibile, sembra che la notizia si sia diffusa molto in fretta. Il primate è lì che mi sta aspettando con una tranquillità che mi fa imbestialire, evidentemente l’unico a avere paura sono io. Qualcuno bisbiglia «eccolo», altri chiamano gli amici che stanno prendendo dello zucchero filato a un baracchino. C’è anche Carnevale, nello spiazzo, comodamente stravaccato su una sedia sdraio da giardino con l’orso Battista. Dice «La sedia l’ho vinta alla pesca delle ochette». Il piccolo boss ormai non lo guarda neanche più, aspetta solo me. Complessivamente la scena ricorda le piazze delle città medievali , le mattine in cui era in programma qualche esecuzione. Arrivo al centro del ring improvvisato, il mio avversario mi si avvicina, mi alita in faccia la sua strafottenza. «Dai, spaccami i denti adesso se sei capace!»
Sciaff! Mi prendo uno sberlone in faccia, a destra. Sciaff! Un altro ceffone, a sinistra. Sciaff! Sciaff!
Adesso li tira a coppie, dice «Dai, dai, non me li spacchi i denti?»
Non riesco a reagire, penso agli autoscontri, al giro che non ho più fatto, a Serafina che mi sta guardando. Sciaff!
Penso ai soldi che ho speso subito, al cd, ai numeri arretrati di Tex Willer. Ma certo! Tex Willer! Cosa farebbe uno come lui in questa situazione? Mi abbasso proprio mentre sta arrivando l’ennesimo schiaffone e lo mando a vuoto, gli tiro un upper cut, il pugno che parte dal basso e lo prendo in pieno nel mento. Il bestione barcolla, finisce addosso ai suoi amici. Si rialza, è furioso. Qualcosa mi prende per un orecchio. Anche lui resta bloccato nello stesso modo, c’è una divisa. Mi volto, sono due poliziotti.
«Bene, bene» dice il mio.
«Ve ne andate a casa subito o venite con noi in caserma a fare un giro?», chiede il suo.
«Ce ne andiamo», dice il boss. Io però ti aspetto domani alle tre in piazza Santa Maria, c’è anche mio fratello, mi sussurra.
Certo, guarda, ti aspetto lì.
né vincitori né vinti, anche stavolta, ma per me finisce qui. Sto per andarmene, quando una voce mi chiama. «Mi accompagni a casa?» È Serafina. No, diciamo che questa volta ho proprio vinto io.