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Ti aspetto fuori

Pubblicato: Maggio 7, 2016 in Racconti
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lunapark

Il caldo di giugno e luglio è ormai un ricordo e il sole, oggi, è coperto da un minaccioso cumulonembo che ha l’aria di uno che la tiene da troppo tempo, ma la temperatura a quest’ora del pomeriggio è ancora gradevole e non riesco a capire perché io sono qui con una felpa e ci sono tutti questi ragazzi con i giubbotti pesanti, uguali tra loro. L’unica differenza è che quelli con più gel in testa portano i gonfi giacconi rovesciati, con la parte arancione in vista, gli altri mostrano il lato verde scuro. Cumulonembi. Che soddisfazione, l’interrogazione in scienze di ieri, con quella stronza della Torielli che ha provato a farmi le domande a sorpresa per farmi iniziare l’anno male. È che la scuola è troppo facile, e se ho l’aria di uno che non studia è perché è vero. Ognuno può avere ragioni più o meno valide per non studiare. Quel tizio lì alla cassa con il giubbotto dal verso arancione esposto e una sigaretta in mano e la ragazza (bella) tenuta stretta con l’altra e i capelli ingellatissimi e gli anfibi con tre centimetri di suola e le punte di metallo lucido probabilmente non studia molto, nemmeno lui. Anzi, mi sa che andava alla mia scuola, ha tipo sedici anni. L’anno scorso faceva seconda, in qualche sezione al terzo piano, e ora tira fuori centomila lire dal portafogli. Io centomila lire le ho viste a natale un paio di volte. E le ho giusto viste per un istante perché mio padre dopo tre secondi le ha ritirate in tasca e dopo due giorni le ha seppellite in qualche cavolo di buono fruttifero vincolato fino al duemilaetrecento. Quindi, secondo i miei calcoli questo tizio al quinto anno di scuola media si sarà sentito dire la famosa frase «adesso tu vai a lavorare», ecco perché esibisce banconote con questa finta disinvoltura da piccolo boss di quartiere. Io invece i soldi li ho finiti, strano. Vediamo, le trentamila lire settimanali visto che non fumo non bevo non ho un motorino a cui riempire il serbatoio ma vado in giro con la bici -che tanto abito in una città larga sì e no quattro chilometri-, insomma dove le ho spese? Un cd, quattro numeri vecchi di Tex Willer, due giri sulle montagne russe. Però vorrei fare un paio di corse, ancora. Devo provare a chiedere un prestito a Zanetti. Zanetti studia, nonostante questo è sempre il più ricco di tutti, per sicurezza. Nel senso che suo padre gli dice sempre «tieni anche questi, per sicurezza», e gli piazza in mano una centomila, così, se per caso gli rubassero la bici e dovesse tornare a casa in taxi. Il problema è che lui è avaro e si inventa sempre delle scuse, quindi probabilmente non mi presterà niente. All’unisono tutte le vetture rallentano e in un attimo sono ferme, molti ragazzi scendono e tornano a bordo pista, qualcuno si massaggia il collo, dice «Ammazza, che botta», o «Al prossimo giro vedi!», altri ridono, ma sono tutti contenti. Zanetti mi raggiunge, gli dico «Oh, Zà, prestami un paio di gettoni». Lui ci pensa un attimo, abbassa lo sguardo, risponde «Eeeh, non so se posso». «E perché? Hai un sacco di soldi» «Eh lo so ma c’è mia nonna che non sta bene, e mio papà ha detto che forse glieli devo ridare per le cure, che costano»

Bisogna ammettere che io una scusa così idiota non l’avevo mai sentita, resto senza parole. Ci ha messo dentro anche il dramma familiare, per impedirmi di ribattere. Sta iniziando un nuovo giro, la musica disco viene a tratti surclassata dalla voce del giostraio al microfono, che dice «Forza ragazziii! Tipeeee! Fatevi un girooo! Si parteeee!», trascinando sempre le vocali finali delle frasi. Intorno al piccolo boss ingellato ci sono tre o quattro ragazzi che lo pregano di fare un giro, insistono, lui fa segno di no con la testa, sorride, indica la ragazza e poi la nuova sigaretta appena accesa, non capisco cosa si stiano dicendo ma sembra di vedere un campetto di calcio di periferia dove i presenti si sono appena accorti che a bordo campo c’è Maradona e lo supplicano di fare due tiri con loro. Finalmente sembra decidersi, consegna letteralmente la ragazza e la sigaretta a quello che pare il suo secondo, infila un paio di occhiali da sole e sale su una delle vetture, sedendosi come se dovesse fare un giro in costa azzurra su una Ferrari decappottabile. La sua ragazza, appena lui se ne va, slaccia la felpa, e rimane con un top quasi trasparente. Resto imbambolato per un po’ di secondi. Anche Zanetti se n’è accorto, e anche Carnevale, che era andato a fare pipì mezz’ora fa, è appena tornato. È un po’ grasso e ha sempre l’aria di uno che ti sta prendendo per il culo. Ha in mano un peluche a forma di orso grosso come una poltrona, dice «l’ho vinto sparando coi fucili alle lattine. Madonna che figa quella!», poi decide di fare un giro sull’autoscontro, mettendo il peluche al posto di guida e facendo finta di essere il passeggero. Appena il giostraio ridà elettricità tutte le vetture ripartono. Il boss prende possesso della pista speronando chiunque, negli istanti che precedono gli impatti dà dei colpi di reni per aumentare la spinta, poi guarda verso i suoi amici facendo dei gesti che non conosco, ma sembra vogliano dire che lui è il più figo. Loro sono in adorazione, a un certo punto lui fa quasi volare fuori dalla vettura un ragazzo e parte l’applauso. Quell’altro rimane incastrato tra il bordo della pista e le auto posteggiate e decide di levarsi di torno, scende dalla macchinina e abbandona la pista. Carnevale nel frattempo ha battezzato il suo peluche, gli ha messo in testa un berretto trovato chissà dove e lo incita, in qualità di autista, a fare dei danni. «Vai, Battista, colpisci quello!», urla. Ha trovato una strana posizione per cui guida con la mano sotto il volante, e sembra davvero che a pilotare sia l’orso Battista, a cui Carnevale grida anche «Dammi un cinque!», dopo qualche manovra particolarmente azzeccata. Se avessi deciso io di entrare in pista facendo finta di far guidare un fantoccio a forma di orso, credo che avrebbero fermato la corsa e mi avrebbero sbattuto fuori a calci nel sedere. Invece lui ha quest’aria strana, il modo in cui ti guarda, pensi sempre che se gli dici qualcosa stai sbagliando tu. Tutto sommato, nonostante la follia, sembra impegnarsi più che altro nel fare brillanti manovre di disimpegno, invece di cercare lo scontro diretto con gli altri piloti. Poi, verso la fine della corsa, il boss sta per attaccare una vettura verde acqua con su due ragazze, probabilmente il numero conclusivo del suo show. Battista, volevo dire Carnevale, invece, sta gironzolando allegramente ai bordi della pista salutando con la mano il pubblico che, bisogna ammetterlo, lo guarda come se fosse un idiota. Poi non si capisce bene come, la vettura verde acqua si sposta all’improvviso, il boss sterza per non mancarla, perde velocità, Battista e Carnevale hanno girato in direzione opposta ma compiono una curva dolce lanciata e veloce, lo scontro è inevitabile e dopo una botta secca secca il boss è inchiodato al bordo con la macchinina tutta sollevata e gli occhiali da sole che sono volati fuori, oltre la giostra, nella stradina sterrata e polverosa.

La corrente si stacca, per un attimo finisce anche la musica. Carnevale non se n’è neanche accorto, sta venendo verso di noi, con Battista, dice «Oh, c’era uno che sembrava un pinguino», dà un altro cinque a Battista, tira fuori da dietro l’orecchio del pupazzo tre gettoni, li ha trovati sul sedile della vettura. Il boss si sta rivestendo, ha lo sguardo furente e fisso su Carnevale. Sta fumando da narici e orecchie, senza bisogno di un’altra sigaretta. Ho il presentimento che le cose si stiano mettendo male, dico «Andiamo al Tagadà?», cerco di allontanarci dal pericolo, Carnevale ha una pessima idea. «Ma quella tipa figa di prima col top dov’è?», chiede, guardandosi intorno e finalmente incrociando il suo sguardo, e ovviamente quello del suo fidanzato, tornato a controllare il territorio dopo aver raccolto gli occhiali nella polvere. Ecco, lo sapevo. Ora basta contare. Uno, due, tre…

«Cazzo ti guardi?». Il tizio avanza minaccioso verso di noi, non aspettava che una minima scusa per vendicarsi. Non ho bisogno di essere un indovino per sapere che Carnevale non risponderà nel modo migliore. «No, ma io non sto guardando te, sto guardando lei», dice. Ci siamo,si balla. Il piccolo boss è spiazzato dalla risposta, non si aspettava una reazione di questo tipo ma ci mette poco a riprendere il suo schema di attacco.

«Vuoi botte?». Dice proprio così. Vuoi botte. È probabile che l’omissione dell’articolo faccia parte di un gergo di battaglia particolare, non saprei. Nel complesso suona minaccioso, tanto più che il piccolo boss sembra abituato a queste situazioni e nonostante la bassa statura sembra più portato allo scontro fisico rispetto a Carnevale. Insomma un figlio della strada con le mani sporche di olio da motore contro un futuro giornalista con le mani appiccicose di marmellata delle merendine. Carnevale dà l’impressione di non rendersi conto del pericolo, come se osservasse la scena protetto da un vetro antiproiettile, perché continua a scavarsi la fossa con evidente gusto. «Pesce lesso», dice. Poi insiste. «Cagnotto». È spacciato, bisogna salvarlo. Appena prima che il piccolo boss gli si scagli contro, mi lancio in mezzo in un disperato tentativo di riappacificazione. «Dai, ragazzi, smettetela», esclamo fingendo un’aria giuliva un po’ ebete.

«Perché se no?»

Ok, questa non me l’aspettavo. Io stavo dando un consiglio sensato, invece questo gorillotto si è improvvisamente disinteressato di Carnevale e sta guardando male me, soffiando aria dalle narici come un toro. È chiaro che vuole del sangue, non importa di chi. Tra parentesi, vorrei sottolineare il solito culo di Carnevale che ne uscirà pulito anche questa volta, grazie al mio involontario sacrificio. Sulla lapide voglio la scritta “cadde eroicamente in battaglia salvando un compagno”. Bene, quindi io adesso cosa gli rispondo a questo? Suppongo che mi abbia fatto quella domanda senza volere una risposta razionale. Cioè, se io dovessi dirgli «perché se no finisce che fate a pugni e tu poi lo picchi perché lui è un po’ grasso e certo, l’abito non fa il monaco mio caro, ma tu hai un’aria da tamarro che la metà basta e io, povera vittima degli stereotipi, non mi stupirei se tu avessi in tasca anche un coltello e glielo piantassi nel suo pingue ventre», ecco se io gli rispondessi così non credo che mi salverei. Sarebbe la verità, ma non credo voglia la verità. Devo trovare un’altra risposta. Questa parte viene descritta in slow motion, in realtà il problema è che nel mio cervello tutto questo ragionamento si svolge in meno di un secondo, perché io qualcosa gli devo dire a questo quadrupede eretto per sbaglio. Inizio a vagliare tutte le risposte possibili, nessuna va bene, il mio cervello frulla come il cartello dei treni in arrivo alla stazione, poi dalla mia bocca esce questa frase: «perché se no ti spacco i denti».

L’ho detto? Ho detto veramente questa cazzata? Ma perché? Non ha senso, da dove mi è uscita? E in ogni caso perché non imparo a farmi gli affari miei? Il tizio mi rivolge un’espressione talmente vacua che mi scopro a guardargli le mani per vedere se ha i pollici opponibili. Poi elabora l’informazione ricevuta e la infila come il pezzo finale del puzzle in uno dei suoi schemi mentali preferiti, gli occhi hanno un primitivo bagliore. «Ah sì? Allora spaccameli, tra mezz’ora, ti aspetto fuori, al parcheggio delle biciclette» Prende per mano la ragazza, e se ne va. Mi tremano le gambe. La prima idea è quella di scappare, del resto ho questa grande occasione, mi basta correre al parcheggio, saltare in sella alla mia bmx, iniziare a pedalare, sparire all’orizzonte come Lucky Luke e non tornare mai più alle giostre. Beh, per quest’anno, almeno. Sì, è decisamente l’idea migliore. Poi mi volto e c’è Serafina. Serafina, a dispetto del nome improbabile, è la ragazza più bella della scuola, e ha lo stesso effetto su di me di un telecomando per le macchinine. Cioè può farmi fare quello che vuole, io la guardo e non capisco più niente. Dice «Sei il ragazzo più coraggioso del mondo! Io lo odio quello lì, una volta all’intervallo ha cercato di toccarmi». Va bene, addio ai miei piani di fuga. Ho anche la faccia tosta di sorriderle, e dirle «Ci penso io». Che pagliaccio. Carnevale nel frattempo se n’è andato un’altra volta. Zanetti invece cerca di farmi coraggio, a modo suo. «Guarda che quello secondo me ti ammazza».

Grazie Zà.

«No perché dicono che suo padre è stato anche in prigione».

Ottimo, vai avanti così.

«Una volta a scuola l’anno scorso gli hanno dato sette in condotta e lo hanno bocciato perché ha picchiato il prof di ginnastica».

«E basta Zanetti vuoi stare zitto?!?».

«Scusa».

Devo essermi incazzato un po’, Zanetti non parla più. Cerco di ragionare sulla situazione. Per essere onesti, non sono proprio quel prototipo di ragazzino sfigatissimo che non ha mai fatto a botte in vita sua. Diciamo che non mi piace e cerco sempre di evitarlo, ma qualche volta è successo, e sono sempre sopravvissuto. Per controllare i battiti del mio cuore cerco di ripassare mentalmente le risse a cui ho partecipato.

Rebuzzi, primo giorno di scuola della seconda. Arriviamo per ultimi, contemporaneamente, nella nuova classe, in ritardo come al solito. Due posti liberi: uno al primo banco, uno all’ultimo. Finire al primo banco vorrebbe dire essere sotto gli occhi dei professori per tutte le ore di lezione. Un incubo. Ci lanciamo come due falchi pecchiaioli verso il fondo della classe, arriviamo contemporaneamente, iniziamo a strapparci di mano la sedia e nel giro di cinque secondi ce le stiamo suonando di santa ragione. né vincitori né vinti, sospesi tutti e due per tre giorni appena è entrata la prof.

Mancano venticinque minuti.

Cesare, all’epoca della terza elementare. Vendiamo a un banchetto improvvisato due giornaletti, per la bellezza di duecento lire. Cento lire a testa. Prima di dividere i soldi, lui decide di comperare una bella pallina rimbalzerella di mia proprietà, per il valore di lire cento. Al momento di dividere quindi i soldi, il genio inizia a dire che a me spettano centocinquanta lire e a lui cinquanta. Non c’è verso di farlo ragionare, ha la bavetta agli angoli della bocca e il calcolo matematico così complesso gli ha fuso il cervello. Mi riprendo la pallina, e lui inizia a cercare di tirarmi delle mazzate. Non ci riesce perché è lento come un bradipo. Arriva sua madre e ci divide, salvo poi farsi spiegare la situazione e dire che ha ragione suo figlio. Che mondo di imbecilli. né vincitori né vinti, riprendo la pallina e me ne torno a casa, con la madre che mi grida dietro che sono un disonesto.

Manca un quarto d’ora.

Partita di calcio, quest’anno, campionato giovanissimi provinciale. Salto per colpire di testa un pallone crossato da Correzzola, ho i gomiti effettivamente un po’ larghi, centro in pieno la faccia di un avversario che inizia a rincorrermi dandomi del figlio di puttana. Mi raggiunge, mi tira un paio di ganci, gli restituisco il favore con un calcio nelle palle. né vincitori né vinti, espulsi tutti e due con due giornate di squalifica a me e tre a lui. Diciamo che ho vinto ai punti.

Mancano cinque minuti. Mi avvio.

Al parcheggio delle biciclette si è radunata una piccola folla. Incredibile, sembra che la notizia si sia diffusa molto in fretta. Il primate è lì che mi sta aspettando con una tranquillità che mi fa imbestialire, evidentemente l’unico a avere paura sono io. Qualcuno bisbiglia «eccolo», altri chiamano gli amici che stanno prendendo dello zucchero filato a un baracchino. C’è anche Carnevale, nello spiazzo, comodamente stravaccato su una sedia sdraio da giardino con l’orso Battista. Dice «La sedia l’ho vinta alla pesca delle ochette». Il piccolo boss ormai non lo guarda neanche più, aspetta solo me. Complessivamente la scena ricorda le piazze delle città medievali , le mattine in cui era in programma qualche esecuzione. Arrivo al centro del ring improvvisato, il mio avversario mi si avvicina, mi alita in faccia la sua strafottenza. «Dai, spaccami i denti adesso se sei capace!»

Sciaff! Mi prendo uno sberlone in faccia, a destra. Sciaff! Un altro ceffone, a sinistra. Sciaff! Sciaff!

Adesso li tira a coppie, dice «Dai, dai, non me li spacchi i denti?»

Non riesco a reagire, penso agli autoscontri, al giro che non ho più fatto, a Serafina che mi sta guardando. Sciaff!

Penso ai soldi che ho speso subito, al cd, ai numeri arretrati di Tex Willer. Ma certo! Tex Willer! Cosa farebbe uno come lui in questa situazione? Mi abbasso proprio mentre sta arrivando l’ennesimo schiaffone e lo mando a vuoto, gli tiro un upper cut, il pugno che parte dal basso e lo prendo in pieno nel mento. Il bestione barcolla, finisce addosso ai suoi amici. Si rialza, è furioso. Qualcosa mi prende per un orecchio. Anche lui resta bloccato nello stesso modo, c’è una divisa. Mi volto, sono due poliziotti.

«Bene, bene» dice il mio.

«Ve ne andate a casa subito o venite con noi in caserma a fare un giro?», chiede il suo.

«Ce ne andiamo», dice il boss. Io però ti aspetto domani alle tre in piazza Santa Maria, c’è anche mio fratello, mi sussurra.

Certo, guarda, ti aspetto lì.

né vincitori né vinti, anche stavolta, ma per me finisce qui. Sto per andarmene, quando una voce mi chiama. «Mi accompagni a casa?» È Serafina. No, diciamo che questa volta ho proprio vinto io.

Il Buongiorno

Pubblicato: marzo 22, 2016 in Racconti
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mosq

Il buongiorno

«Ah, come odio i nomi!» Michele Russo con il pollice faceva scorrere lo schermo del telefono della sua ragazza, Camilla, collegato a un sito di nomi propri per bambini maschi – Italia. La sua ossessione era trovare un nome al loro figlio nascituro per il quale fossero ancora disponibili, in internet, i domini punto com e punto it, e comprarli. «Potremmo chiamarlo Levriero. O Insalato. Insalato Russo, eh? Ma mi spieghi come cazzo faccio a chiamare un figlio che ne so, Filippo?» Camilla, con una pancia notevole da gravidanza agli sgoccioli cercava qualcosa da cucinare per la cena. «Ci sono i tortellini al prosciutto crudo. Li vuoi?». Lui non era molto interessato al cibo. Con una mano giocava con il telefono, e con l’altra si puliva in mezzo alle dita dei piedi, lanciando dei pallini neri sul tappeto. La giornata era iniziata piuttosto male. Niente di particolarmente significativo, ma una serie di piccoli episodi che una mente vigile leggerebbe come segnali con su scritto “Oggi è meglio se non fai niente, torna a casa e vai a dormire”. Qualcuno gli aveva sgonfiato per scherzo la gomma della bicicletta, aveva perso tempo a cercare la pompa quindi era arrivato in ritardo in banca per depositare un migliaio di euro che teneva in cucina in una scatola di metallo con scritto Krumiri di Casale monferrato, sotto a dei veri biscotti. Lo sportello per i versamenti automatici era temporaneamente indisponibile per intervento dell’operatore. Venti minuti dopo, lo sportello per i versamenti automatici era ancora temporaneamente indisponibile per intervento dell’operatore. Michele Russo si era rotto il cazzo di aspettare e si era diretto al negozio di telefonia per comprarsi un cellulare nuovo, visto che gli avevano rubato quello vecchio. «Abbiamo finito le sim». La commessa lo aveva liquidato con questa frase, e poi un generico torni mercoledì o giovedì in questo periodo è un disastro.

Michele si annusò la mano, poi riprese a parlare. «Ma che cosa vuol dire Filippo? Poi cerco in internet Filippo Russo e mi saltano fuori centoventimila risultati. Filippo Russo, quarta A ragioneria, ITC Antonio Pacinotti, Pisa. Filippo Russo, detto Hamsik, trasporti nazionali e internazionali, Napoli. Ing. Filippo Russo, via Verdi, Potenza. (Vedi profilo su linkedin). A parte che io un figlio non lo chiamerei mai Filippo, sembra un nome tipo da piccolo principe Filippo. Com’è che si chiamava quello che hanno fatto fuori a Sarajevo, che poi è scoppiata la seconda guerra mondiale? Filippo, no?» Camilla lo guardò storto ma quasi in modo distratto, per la serie sto insieme a un ignorante ma ormai me ne sono fatta una ragione. «Francesco Ferdinando. Comunque era la prima, di guerra mondiale, non la seconda» «Eh, va be, Filippo, Ferdinando, più o meno è la stessa cosa. Ma guarda qua, solo a Napoli città ci sono duemilacentodieci famiglie che si chiamano Russo, e ripeto famiglie, non singoli individui, fa-mi-glie. Ma mi dici che probabilità ho di trovare un nome che non ci faccia andare in giro con un figlio che ha una quantità di omonimi che riempirebbe una palestra? Tuo fratello sì che è fortunato» «No, mio fratello è un deficiente, e quel povero bambino di mio nipote quando andrà a scuola vedrai come inizieranno a prenderlo per il culo. Aniello Ajello. È proprio una cosa tipica di mio fratello. E mia cognata io non capisco come lo lasci fare. Non gli dice una parola, tutto quello che dice lui è oro colato» Camilla stava per aprire la scatola di tortellini, poi guardò il retro della confezione. «Scadono fra una settimana, sono da far andare. Ma mi spieghi cosa vuol dire questa cosa? C’è scritto “possono contenere tracce di noci, crostacei, pesce, sedano” Cioè io potrei trovare tracce di pesce nei tortellini al prosciutto crudo? Ma ti pare?» Michele decise che il piede sinistro era stato pulito a sufficienza e passò a lavorarsi il destro, grattando con l’unghia uno strato di fanghiglia nera secca, vicino all’alluce. «Eh, mettono le mani avanti. Le multinazionali, lo sai come allevano i polli? Nelle gabbie tutte minuscole migliaia di polli che mangiano…» Camilla non gli lasciò terminare la frase. «…i loro stessi escrementi, sì d’accordo, ma perché dovrei trovare del pesce? A parte che il prosciutto è di maiale e non è di pollo, vuoi dire che anche i maiali…» Michele si era distratto, ora sembrava che avesse avuto un’idea incredibile, era tutto gasato. «Lo chiamiamo Italo! Italo Russo! Così sembra che abbia la doppia nazionalità! I maiali cosa?» «Ma no niente lascia stare, senti io metto l’acqua a bollire che con questa mania di cenare tardi finiamo sempre a ore impossibili, io sono stanca, Michele, cioè siamo proprio lì lì», disse accarezzandosi il pancione.

Michele si mise a apparecchiare la tavola con le mani sporche di piedi, mentre Camilla preparava la cena. Intanto ne approfittò per stappare una bottiglia di Greco di Tufo, e se ne scolò un bicchiere in un sorso. A un certo punto disse «Zitta un attimo». Camilla lo guardò con aria interrogativa. «Sssht», disse ancora lui. Si era abbassato, avanzava lentamente con le gambe piegate e la schiena curva, si avvicinò alla libreria, poi andò oltre, poco più in là si arrestò fissando un punto sul muro. «Eccola, la puttana!», disse.

«Chi?»

«La maiala schifosa. La zanzara»

«Come la zanzara? A marzo? Oh Michele falla fuori che sono pericolose» Era agitata, non riusciva a stare ferma. «E stai zitta che se fai casino questa scappa!» Michele prese un libro dalla libreria, caricò il colpo, e la mancò di un soffio, sbagliando proprio mira. Il libro si stampò sul muro, mentre la zanzara se ne volò via placidamente confondendosi con i colori della stanza.

«Oh ma sei handicappato forte!»

«Ma dammi una mano invece di lamentarti. Dov’è?»

La sala era ricca di oggetti colorati, di quadri, di tende. Tra il rosso e l’arancione, il giallo, altre tinte più scure, era difficile individuare l’insetto. Finalmente Camilla riprese a animarsi. «Là! Là! Sul soffitto!»

Michele corse nello sgabuzzino a prendere la scala, la sistemò in corrispondenza di dove si era appollaiato l’insetto, che un paio di secondi dopo volò via, riprendendo la sua peregrinazione.

«Merda!» gridò lui, che iniziava a perdere la pazienza. «Ho bisogno di un coadiuvante», aggiunse, e fece fuori un altro bicchiere di vino senza neanche respirare. Camilla invece stava entrando in una fase di panico totale. «Comunque io devo andare, l’ho vista quando si è posata sul muro, aveva le macchie bianche sulle zampe, è una aedes aegypti. Può trasmettere lo zika, la febbre gialla e il dengue. Michele io vado in bagno, qua se mi punge rischiamo che ci nasca il figlio scemo». Nel frattempo Michele aveva visto la zanzara entrare nell’armadietto pensile dove tenevano salse e attrezzi per la cucina, e aveva iniziato a prenderlo a pugni nella speranza di disturbare la zanzara e farla uscire. Da un appartamento vicino arrivarono dei colpi sul muro, qualcuno gridò «Basta! smettetela di fare casino!» Michele rispose urlando un bel «Vaffanculo!» a pieni polmoni, che forse fu ciò che convinse la zanzara a uscire dal suo nascondiglio e a riprendere a svolazzare per la stanza. Lui cercò di seguirla con lo sguardo, ma era impossibile: ogni volta che quella se ne andava in una zona dove lo sfondo era scuro, lui la perdeva di vista. Finalmente riuscì a indivuiduarla di nuovo. Era sul soffitto, ma sopra al frigorifero. Era impossibile arrivarci con la scala, bisognava salire in piedi sul mobile della cucina. Michele si arrampicò, sempre con il libro in mano. Nel compiere l’ultimo passettino di aggiustamento non si accorse che il ripiano era rimasto sporco di olio dopo che Camilla, a mezzogiorno, aveva preparato una cernia alla ligure. Appena calpestò la chiazza unta il suo piede partì come il disco del curling centrando in pieno la pentola piena d’acqua bollente, dove sarebbero dovuti cuocere i tortellini, facendola volare in mezzo alla stanza. Michele andò giù di conseguenza, e riuscì a ustionarsi il ginocchio contro il fornello e a prendersi una storta micidiale restando con il piede incastrato nel lavandino prima di rovinare del tutto a terra, per fortuna almeno riuscì a non cascare sull’acqua bollente con cui aveva allagato mezzo pavimento.

«Ma cosa stai facendo di là?», gridò Camilla dal bagno

«Niente», Michele zoppicava in modo abbastanza vistoso e sul suo ginocchio destro aveva iniziato da subito a gonfiarsi una vescica grossa come una noce. Guardò di nuovo sopra al frigorifero, la zanzara non c’era più. Dall’appartamento vicino arrivarono nuove lamentele. «Allora, la finiamo?», gridarono.

Poi, finalmente, eccola. La porta-finestra a vetri che affacciava sul balcone aveva un bel battente centrale grosso e bianco. Lei era là, immobile sulle sue zampe nere con le macchie bianche, pronta per essere giustiziata. Michele decise di armarsi con estrema attenzione, questa volta scelse il libro che gli sembrava più adatto. Prese It di Stephen King. Milletrecentoquarantaquattro pagine, doveva pesare almeno due chili. Avrebbe spiaccicato la zanzara cancellandola dalla faccia della terra. Michele non voleva far rumore, la zanzara non doveva accorgersi del suo arrivo. Si avvicinò con la pazienza di un monaco zen, il ginocchio e la caviglia gli facevano un male bestiale. All’improvviso il suo braccio scattò, e fece partire una bordata tale che polverizzò letteralmente la zanzara. La mira non fu però proprio del tutto pecisa, infatti con un angolo del libro colpì il vetro della porta finestra facendolo esplodere, procurandosi una serie di squarci nella mano e mozzandosi almeno un paio di tendini. A causa del male all’inizio non riuscì nemmeno a gridare, iniziò a fischiare come un leone marino, saltando per la stanza e spruzzando sangue ovunque, poi finalmente trovò la coordinazione e se ne uscì con un «Porca puttanaaaaa» che per volume sembrava un dc-9 in fase di decollo. Dall’appartamento vicino qualcuno gridò «Adesso avete rotto i coglioni!» Camilla entrò nella stanza e per prima cosa si preoccupò di abbassare la tapparella, per impedire a altre zanzare di approfittarsi del vetro rotto per entrare. Disse «Ma sei scemo?» Poi iniziò a intuire la gravità della situazione. Lui corse al lavandino e fece scorrere acqua sulla ferita, sembrava stesse perdendo molto sangue. Uno straccio pulito! Michele riuscì a farsi una medicazione temporanea tamponando e rallentando l’emorragia, almeno per il momento. Non capiva più niente, gli si stava anche abbassando la pressione e gli girava la testa. Qualcuno suonò alla porta, Camilla chiese chi fosse. «Il vicino», disse una voce. Nel condominio di diciassette piani e cinque ascensori in cui si trovava il loro appartamento, “il vicino” era una definizione piuttosto vaga. Camilla credeva di aver distinto la voce del ragionier Mancuso, l’inquilino del 13 M, che organizzava il cineforum nella piccola sala comune e consegnava il programma a tutte le famiglie. Forse poteva aiutarli! Quando aprì la porta, colui che entrò in casa con una chiave inglese in mano non era il ragionier Mancuso. Era grosso. Aveva una chiave inglese in mano. Non si era mai visto. Michele capì, le urla minacciose dall’appartamento vicino, la sua risposta, la società di oggi, in cui basta poco e qualcuno dà fuori di matto, le notizie sui giornali. Ucciso dal vicino di casa, guardava Amici di Maria De Filippi a volume troppo alto. Lite a un semaforo, scende e massacra l’automobilista che non ripartiva con il verde. Michele si rassegnò al suo destino, sperò almeno che non toccasse Camilla. Una donna incinta, era quasi sicuro che non le avrebbe fatto niente. Anche i peggiori animali hanno rispetto, per le donne incinte. Per lui ci sarebbe stato poco da fare. Disse «Ok, ma prima chiuda la porta, che entrano le zanzare».

Il tizio si voltò, chiuse la porta, guardò Camilla, poi Michele. Si grattò la testa con la mano libera. Disse «Eh pardòn, anche l’ora e il modo di presentarmi conciato così sa ma stavo riparando il rubinetto e mia moglie mi ha detto che ha finito le cipolle stava facendo il fegato, comunque mi presento Marangon piacere noi ci siamo appena trasferiti da Vicenza ecco se gentilmente i signori avrebbero una cipolla da prestarci… ma va tutto bene?»

 

 

Shibboleth

Pubblicato: gennaio 7, 2015 in Racconti
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Francesco_Hayez_023

 

Shibbolet.

Giorno 46 dall’invasione.

Giuseppe arrivò alla postazione di guardia con del tè caldo in un contenitore termico e dei biscotti.

«Grazie», disse Mauro. «Qui non è successo niente tutto il giorno. La riunione, invece? Racconta»

«Eh. Parecchia roba. Cose serie, ma anche le comiche ti giuro. Il grande capo ha fatto parlare prima il popolo, per una volta»

«Ma dai?», Mauro era stupito.

«Sì, guarda ha iniziato Alessio Bocca chiedendo se si poteva celebrare il Natale in qualche modo, intendeva proprio dire l’aspetto della natività, cioè la parte religiosa, non degli scambi di regalini, diceva è per mia madre che è credente e qui non è l’unica eccetera. Si è scatenato un putiferio, Daniele Dini è di Roma, quando è scoppiato il grande casino sua moglie c’è rimasta al massacro in Vaticano quindi figurati, hanno dovuto fermarlo perché stava per prenderlo a pugni»

«Beh parlare di religione in questo momento mi sembra assurdo»

Giuseppe sorseggiò il tè fumante. Faceva freddo. «Assurdo o no non sottovalutare certi segnali, è noto che le religioni hanno le impennate di fedeli proprio quando le società attraversano i momenti di maggiore crisi, quando la gente sta bene se ne fotte. Cioè, è documentato. Se ci fosse ancora internet ti troverei al volo una decina di studi sull’argomento»

«Figa, internet. Sai che non ci penso quasi neanche più? Va bè. Poi?»

«Poi ha parlato Eleonora, ha depositato le bozze del programma scolastico per i ragazzi che si è studiata, il grande capo ha nominato una commissione di tre persone per vagliarlo, va bè chissene».

«Concordo»

«Poi ha parlato Giovanni, indovina di cosa?»

«Di figa», rispose Mauro, sorridendo ma senza mai staccare gli occhi dalla via.

«Bravissimo. La storia che continuava a raccontare in giro, che in una comunità chiusa di centoquarantotto individui è necessario un equilibrio tra i sessi, che qui non c’è, ha sostanzialmente chiesto in via ufficiale il permesso di andare a cercare delle donne in giro, lui e una squadra di volontari formata da Ezio e da Rolli»

«Mmm. Il ratto delle Sabine. Ma non siamo una comunità chiusa»

«Sì, Mauro, non fare il preciso. Quanti vaganti sono arrivati nelle ultime due settimane?»

«Boh. Uno?»

«Uno. Tale Visentin Alberto da Padova che dopo due giorni è stato cacciato perché cercava di sintetizzarsi dell’eroina giù in laboratorio. Sta di fatto che il grande capo gli ha detto vai, Giovanni, vai e torna vincitore»

«È un bel coglione anche lui»

«Il grande capo?»

«Direi»

«Sì, sono d’accordo. Ora le brutte notizie. È stato scelto il pilota del Gunner»

«Sono usciti i risultati dei test?»

«Sì. Il settantanove per cento dei candidati aveva il punteggio massimo. Tutto giusto, comprese le simulazioni»

«Grazie al cazzo, erano troppo facili»

«Va bè, è anche facile pilotare il Gunner»

«Sì ma quindi?»

«Gianluigi Cavigliani»

Mauro guardò Giuseppe con un’espressione che ricordava vagamente l’urlo di Munch.

«Ma è un cretino totale!», disse. Giuseppe alzò le spalle sconsolato. Una figura si stava avvicinando nella neve.

«Visto?»

«M-m. Alieno o vagante?»

«Alieno, una boccia di vino»

«No, una boccia di vino non la scommetto. Un pacchetto di tabacco»

«Ok»

La figura era ormai molto vicina, era una donna, vestita con un pesante giubbotto di piumino.

«Alt!», urlò Mauro. «Ciciri»

La donna non sembrava capire. «Eh?» disse, strizzando gli occhi per vedere qualcosa attraverso la luce del faro che i due le stavano puntando addosso.

«Devi dire ciciri» insistette Mauro.

«Cos’è che devo dire?»

«Devi dire ciciri! Al tre sparo. Uno», disse Giuseppe, imbracciando il fucile laser.

«Oh ma sei scemo? Ciciri, cazzo, ciciri ciciri va bene?»

Il pesante cancello si aprì e la fecero entrare.

«Scusa», disse Mauro offrendole una tazza di tè. «È lo shibbolet»

«Lo scibbo che?»

«Lo shibbolet. Ti sarai accorta che gli alieni parlano come i francesi, no? Che hanno questi difetti di pronuncia, almeno nel parlare italiano»

Finalmente lei si illuminò. «Uh! Come fecero nei vespri siciliani, ho capito! Ceci, in Sicilia si dice ciciri! Se fossi stata un’aliena avrei detto scisciri e mi avreste fatta fuori!»

«Ah beh hai studiato. Mica male come sistema, no? L’ho inventato io», disse Giuseppe gongolandosi.

Mauro non era del tutto convinto «Sì, beh», disse.

«Sì beh cosa? Ok, è vero, un mese fa abbiamo sparato a due, poi abbiamo frugato nello zaino e abbiamo scoperto che erano studenti francesi in erasmus a Siena quando è scoppiato il casino e stavano cercando rifugio qui, ma trovalo tu un sistema migliore visto che fai tanto il figo»

La donna disse «Comunque io sono Maddalena, Maddalena Giorgi, da Ancona che non c’è più. C’è una doccia qui?»

Giorno 48

Gianluigi Cavigliani appena scoperto di essere il pilota del Gunner aveva iniziato a tirarsela più di Naomi Campbell. Il successo nella missione gli avrebbe garantito una vita da re e lui che non aveva ancora fatto niente gironzolava molleggiandosi come il fantino vincitore del palio di Siena. Un paio di ragazzine gli avevano chiesto addirittura di fare una foto insieme, da quel momento si comportava come se avesse già distrutto l’ultimo alieno sulla terra. Perlomeno si manteneva sempre in forma, faceva venti chilometri di corsa al giorno nel recinto degli asini e si allenava a kick boxing. L’ingegnere capo, Rattazzi, si stava incazzando. «Ma mi ascolti o no? Smettila di guardare la tipa nuova»

«Eh. Ingegnere, ho capito. C’è un colpo solo, devo alzarmi in volo all’ultimo momento e colpire l’astronave aliena. Mi dica qualcosa in più»

«Niente, abbiamo già fatto i test, gli alieni quando vedono i panda non capiscono più niente, il gunner ha questo rivestimento per cui è mascherato da panda volante, quindi potrai avvicinarti tranquillamente»

«Ma è sicuro che siano così deficienti?»

«Tranquillo. La tua metà del codice di sicurezza per armare il gunner te la ricordi, piuttosto?»

«Sei due quattro cinque nove»

«Sì, essendo un codice di sicurezza tu non dovresti dirmelo. Il tuo copilota non me l’ha detta la sua parte»

Gianluigi fece ciao ciao con la manina a una tettona che passava lì vicino con due secchi maleodoranti, quella si imbarazzò. «È il compost», disse, come per scusarsi. Gianluigi le fece il pollice in su e l’occhiolino come se fosse stato Tom Cruise in Top Gun.

Giorno 49

Giuseppe arrivò alla postazione di guardia con un salame di Varzi e una bottiglia di buttafuoco barricato «Grazie», disse Mauro. «Ma sei sempre tu a darmi il cambio?»

«Bah avevo il turno a pulire i cessi e l’ho scambiato con Daniele Dini, il bastardo ha preteso anche una canna d’erba ma gliel’ho data, a me pulire i cessi fa proprio schifo. Comunque, ti aggiorno. Giovanni ci ha provato con Marcella Banti»

«E?»

«E lei hai visto che tipa è, no? Ovviamente l’ha respinto senza troppi complimenti, lui all’inizio cercava di conquistarla con delle battute da brillantone, dopo mezz’ora era in ginocchio che le offriva il suo drone cercatartufi in cambio di una notte d’amore. Una scena pietosa, penso che lei stesse per sputargli in testa. Il problema è che in quel momento è arrivato Rolli, che a quanto pare ha sbroccato»

«Sì, anche lui da quando la morosa lo ha lasciato è andato fuori. Che ha fatto, ci ha provato anche lui?» «Peggio, si è presentato nel cortile vicino alla conigliera vestito con un saio e sosteneva di essere il profeta Isaia, annunciando la rovina di Israele»

«Esiste ancora Israele?»

«Ma non lo so, non credo, ma sticazzi Israele, il fatto è che a quello gli è partita la brocca, a quanto pare era rimasto due giorni e due notti in piedi senza scarpe davanti a una pietra chiamandola “moglie” e parlandole in una lingua incomprensibile. Alla fine è arrivato un ragazzino con una cerbottana e gli ha sparato un narcotico. Poveraccio. Poi hanno oh oh cazzo guarda là»

«Visto», disse Mauro premendo un pulsante rosso.

Giorno 49 – L’attacco

Un potentissimo grugnito risuonò in tutta la fattoria proprio mentre si stava concludendo un affare. Elisa Borghi, ex bidella alle scuole medie Garibaldi di Pistoia, stava offrendo una serie di incontri intimi a Giovanni, avendo sentito dell’offerta del drone cercatartufi. Il problema era che la Borghi pesava novantadue chili, e anche Giovanni stava valutando i pro e i contro. Il grugnito era interminabile. Maddalena era sgomenta. «È il nostro segnale di allarme», disse un vecchio. «La sirena sembrava troppo scontata all’ingegnere che ha progettato il sistema, era un tipo originale» «Penitenziagite!», gridava il Rolli, che per essere reso inoffensivo era stato appeso dentro a una gabbia a tre metri da terra. “Non è un’esercitazione”, grugnivano gli altoparlanti. Gianluigi Cavigliani si infilò la tuta da combattimento e in tre secondi saltò dentro al Gunner. Il copilota non arrivava. Il copilota si svegliò con un mal di testa assurdo. Cercò di ricapitolare gli avvenimenti della sera precedente. Aveva cercato di far ubriacare una ragazza, una nuova, Maddalena si chiamava, con una bottiglia di amaro del povero, ma ne aveva bevuto troppo lui e si era addormentato. L’altoparlante continuava a grugnire. Il copilota disse «Porca puttana che sfiga proprio oggi?», afferrò una lattina di chinotto e si avviò in mutande verso il Gunner.

«Ma i pantaloni no?», chiese Gianluigi Cavigliani vedendolo salire a bordo.

«Va bè», rispose quello. Il gunner prese quota. L’astronave aliena era enorme. Quando si accorsero del Gunner, dalla mega corazzata venne estroflesso un braccio meccanico che iniziò a fare i grattini al pericoloso panda volante. Il copilota inserì la sua parte di codice di sicurezza. Era una scena molto bella. La grande astronave che accarezzava il piccolo panda volante, e sullo sfondo la splendida città di Cortona preservata dagli alieni come le altre città d’arte toscane. Gianluigi Cavigliani inserì la sua parte del codice e prese la mira con il joystick. Un colpo solo. La salvezza. Il copilota finì di bere il chinotto in un sorso e sparò un rutto micidiale. Gianluigi stava per fare fuoco. Il copilota ebbe un rigurgito e vomitò un fiotto di amaro del povero, poi credette di sentire un rumore dietro di sé e si voltò, dando una gomitata in faccia a Gianluigi. Gianluigi sparò di riflesso. Ovviamente sbagliò mira.

«Ma cazzo»

«Scusa oh, cioè ma ero sicuro, sembrava ci fosse qualcuno. Guarda, hai preso il campanile della chiesa»

«Già. E adesso?»

«Adesso siamo nella me» ZUT.

Alla postazione di guardia Giuseppe osservava la scena mangiando il salame di Varzi, disse «Nooo, hanno sbagliato! Cazzo li hanno disintegr» ZUT

Il Rolli dentro alla gabbia la faceva dondolare estasiato, vedendo le sue previsioni avverarsi. Gridava. «Pape satan, pape satan aleppe, pentitevi dei vostri pecc» ZUT

Maddalena Giorgi alzò gli occhi al cielo, e le braccia. Finalmente! Peccato solo che quegli imbecilli avessero distrutto il campanile. «Scisciri, scisciri, umani di merda!», gridò. «Pensavate non si potesse imparare una pronuncia, eh? Fottetevi tutti! Scisciriiiiiii!!!!»

Il grande capo la guardò malissimo. «Ma eri una di loro… e noi che ci siamo fidati… brutta pu» ZUT.

Ah, dimenticavo. Scisciri.

Heartbite

Pubblicato: dicembre 10, 2014 in Dialoghi, Racconti
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heartbite

Questa mattina mi sono svegliato ripensando a un discorso fatto ieri sera con un amico al bar. Per ragioni di privacy farò finta che il mio amico si chiami Aldo, forse perché non conosco nessuno che abbia questo nome. Ne conoscevo uno all’asilo, aveva questo strano viso che mi ricordava un gallo. Un grasso gallo, per la precisione. Ricordo che un giorno, in mensa, avevamo davanti un piatto di risotto davvero disgustoso, aveva lo stesso odore dei giochi in plastica quando i bambini ci sbavano sopra. In pratica aveva lo stesso odore di ogni cosa, in quell’asilo, visto che era un posto pieno di bambini che sbavavano sopra tutto ciò che gli capitava a tiro. Insomma, eravamo seduti al tavolo cercando di ingurgitare almeno in parte quell’orrida pietanza, e io venni improvvisamente colto da un dubbio. Gli chiesi: Senti Aldo, ma noi siamo amici? Lui mi rispose di no, e specificò che non voleva neanche diventarlo. Io acquisii quell’insieme di dati in modo scrupoloso, come spesso si fa a quell’età. Il fuoco brucia, la sera alle nove e mezza si va a dormire, i miei genitori mi vogliono bene, io e Aldo non siamo amici e non lo diventeremo mai. Alcune delle leggi che governano l’universo. Bene, dopo di allora non ho più conosciuto nessun Aldo, quindi sono sicuro di non avere amici con quel nome. E ieri sera parlavo con questo pseudo Aldo. Mi ha detto «Ma che razza di capelli hai? Sembri quello di star trek» Ho glissato sull’argomento, spiegare le ragioni della mia frangia da vulcaniano sarebbe stato lungo e tedioso. Invece il discorso è scivolato sulle mie disavventure sentimentali degli ultimi anni, queste storie d’amore più o meno lunghe andate comunque tutte a finire in vacca. A un certo punto ho avuto un’illuminazione. «Aldo», ho detto, «ho capito tutto». Guardavo verso l’alto, sembrava stessi assistendo a un’epifania, avevo capito tutto davvero, ne sono convinto anche ora che scrivo, penso che questa cosa mi cambierà la vita. «Aldo, porca miseria ho trovato il bosone di Higgs, il modello del dna, la costante di Planck. Ho trovato la cosa che accomunava tutte queste donne!»

Aldo mi ha fissato perplesso, mi ha chiesto «erano tutte delle gran mignotte?»

«Ma no, anzi può essere, non lo so, in ogni caso non ti permettere di parlarne così, io le ho amate. Comunque, non è questo il punto. Aldo, il punto è un altro: avevano tutte il mac» Questo particolare mi sbalordiva. Il mac, cazzo! Tutte quel dannato mac.

Aldo mi ha chiesto cosa significasse, secondo me. «Il mac costa parecchio, erano ricche?» ha detto.

Ma no, non lo erano. No, avevano in comune qualcosa, una disegnava, l’altra faceva foto, un’altra video, altre facevano altro ma tutte in quei settori in cui le donne sono convinte che per lavorare bene sia indispensabile quel cazzo di computer con la mela morsicata. Ero convinto di scegliere le donne in base a determinate caratteristiche, non pensavo che quella comune fosse il tipo di computer che usavano. Mi sono sentito molto nerd, e nello stesso tempo ho capito perché queste relazioni sono fallite: io il mac lo odio, quindi mancavo di punti in comune fondamentali con queste ragazze. Sono situazioni possibili, ma difficilmente funzionano, è come una relazione tra una trapezista russa e un pastore della val d’Ossola.

È stato ancora peggio continuare a pensarci e essere sempre più convinto di avere ragione, a quel punto mi sono sentito annegare in un mare aperto e tempestoso fatto di codici, classi, operatori logici, strutture di controllo. Vedevo la mia vita passata presente e futura in base a una serie di if, then, else.

Aldo mi ha chiesto «E ora cosa pensi di fare?»

«Non so», ho risposto. «Devo pensare che al prossimo appuntamento con una ragazza le chiederò subito che computer usa, ma il cerchio si restringe. Quelle che usano il mac non le voglio più vedere, in generale sono troppo prese da loro stesse. Quelle che usano windows non mi piacciono, lo so è un discorso un po’ classista ma secondo me sono noiose, a meno che non usino visual studio, ma è un’ipotesi remota, direi. Mi restano quelle che usano linux, e che comunque preferibilmente non abbiano l’iphone. Aldo, sono fottuto»

Aldo si è alzato, è andato a prendere due bicchieri di vino, mi ha detto «tranquillo, Fabri, non pensarci adesso».

N.B.: Ogni riferimento a fatti cose persone realmente esistenti deve ritenersi del tutto casuale, ma: se qualcuna è convinta che tra lei e me ci sia stata una relazione in tempi relativamente recenti e non ha il mac, sappia che o non le ho dato importanza e quindi me la sono dimenticata, o è stata sacrificata per i miei biechi scopi narrativi.

N.B. 2: se sei una ragazza e usi linux io sabato sera sono libero.

N.B. 3: se qualcuno è convinto che io conosca gente che si chiama Aldo può portarmi delle prove, ma in generale può anche risparmiarsi la fatica, vivo bene anche con questa mia convinzione.

Troppo amici

Pubblicato: ottobre 21, 2014 in Racconti
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frida

Oggi.

«Mi invita fuori è tutto carino, garbato, ha una galanteria particolare, di quelle che ti fanno venire già un po’ il dubbio che siano tecniche di abbaglio da primi appuntamenti destinate a sparire e a rivelare un materiale completamente diverso. Poi si mette in trappola da solo, mi dice sei così speciale che mi fai perdere completamente la testa, farei di tutto per te, lascerei anche la famiglia. A quel punto gli faccio notare che è single», racconta lei.
Lo capisco, il tizio, è una che può far perdere la testa. Peccato per me che io e lei siamo troppo amici. Non che la cosa a mio modo di vedere costituisca un ostacolo così insormontabile, per lei però sembra di sì, o almeno si impegna a farmi credere che il problema tra di noi sia quello. Fa niente, forse siamo troppo amici davvero, lascio perdere certe idee e mi godo la serata e la chiacchierata, la stuzzico, dico «Vedi Clara hai questa tendenza dispersiva a affrontare le questioni cogliendo aspetti del tutto marginali, ti aggrappi a dettagli insignificanti quando poi il nucleo rilevante della situazione sta da un’altra parte. La sua era una dichiarazione, se questo tizio già non ti andava potevi rispondergli in modo anche più diretto. Voi donne finite sempre con il girare intorno alle cose». L’ultima frase è volutamente provocatoria. Infatti. «A parte il fatto che stai parlando con me e non con una rappresentanza sindacale di categoria». Lo sapevo che avrebbe reagito così, sorrido osservandola mentre si fomenta. «ma ti pare che uno cerchi di conquistarmi dicendo una frase del tutto priva di senso, oltretutto ipotizzando un comportamento vile come il lasciare una famiglia per una che hai visto due volte? È veramente un imbecille». Ha ragione, io mi sto solo divertendo a darle contro. «A proposito», riprende «Ti ricordi quegli orecchini che ho dimenticato da te quella volta che mi hai ospitata a dormire?» Certo che me li ricordo, li ho visti non più tardi di quattro giorni fa. «Se ti do dieci euro me li vendi?», chiedo. Mi guarda con gli occhi un po’ sgranati, forse le devo una spiegazione.

Quattro giorni prima.

Enrico guida con lentezza, ha quel modo di condurre la vettura tipico di chi è in anticipo. In realtà non sa se io abbia o meno da fare, siamo stati a trovare i nostri genitori. Mi chiede «Domenica andiamo a vedere la partita?»
«Mi vedo con una», dico.
«Una nuova?»
Mi sembra di cogliere un’intonazione allusoria alla mia scarsa fortuna nel creare relazioni stabili, al mio essere dissonante rispetto alla sua vita di capo famiglia italiano perfettamente in linea con quello che la società si aspetta da te. Gli voglio bene lo stesso, anche se quando fa così mi fa incazzare.
«No!» dico, fingendo un particolare entusiasmo da condividere con lui, come per dirgli sorpresa, ho messo la testa a posto anch’io! Infatti mi guarda felice, ringalluzzito, per l’entusiasmo ingrana addirittura la terza e supera i cinquanta all’ora nella statale deserta. «È Alessandra», concludo. Non è più felice. «Alessandra», ripete, assumendo uno sguardo liquido e inespressivo. Ha ragione lui stavolta, vado sulla difensiva. «Senti non è che per il fatto che sei mio fratello devi arrogarti il ruolo di giudice tutte le volte che vedo una donna»
«Daniele», dice. Gli cascherebbero le braccia ma non può, sta di nuovo cercando di sperimentare se un’automobile può andare in stallo. «Se ti ricordi bene sei tu che al massimo tre settimane fa mi hai detto mi è bastata una volta, è impiegata alle poste, sbaglia i congiuntivi e ha la figa che sa di cacciucco». L’ho detto, e me lo ricordo bene. Perchè l’ho invitata di nuovo a cena? Una seconda possibilità? Un errore consapevole? Non lo so nemmeno io. Un trattore ci supera, l’intero quadro mette una certa tristezza.

Domenica.

È arrivata con dieci minuti di anticipo. Sarebbe anche bella, mi fa vedere un autoscatto che ha pubblicato su facebook, dice «Vedi? Ho settantadue like», poi mi racconta una storia piuttosto dettagliata sul modo di vestirsi osceno di una sua capa. Servo in tavola, con una certa dose di ironia che colgo solo io ho fatto il cacciucco. Mi racconta di un suo collega, a quanto pare un maiale schifoso perché ha provato a invitarla a uscire a bere qualcosa. Dice «Gli ho detto oooh, ma sei scemo? Io mica ci vengo con te» Sostiene che il maiale schifoso probabilmente avrebbe anche voluto scopare. Ma pensa un po’. A sentirla parlare provo le stesse travolgenti emozioni di quando sono in coda al supermercato. Dopo dieci minuti mi sta praticamente strappando i pantaloni di dosso, per qualche ragione io non dovrei essere stato catalogato come porco schifoso. Indossa un perizoma con stampata la faccia di Frida Kahlo, con tanto di baffetti, non mi sembra una cosa normale. Dico «È Frida Kahlo!».
Mi risponde «Chi? Ah, lì sotto, boh me le ha regalate il mio ex» Finisco quello che abbiamo iniziato per educazione, pensando ad altro, alla partita, a mio fratello che non aveva torto e a cosa gli racconterò, a una che mi piace sul serio ma che non riesco a convincere a uscire con me. Mi chiede «Ma ti piaccio?» A questa domanda mento spudoratamente. «Allora magari possiamo iniziare a vederci più spesso», conclude. Ora mento in modo più subdolo, la butto sulla confusione, dico «Ma sì, vediamo un po’ come si mettono le cose, sai frequentare una donna in modo stutturato richiede una valutazione attenta, devo capire se posso essere abbastanza presente, capisci?». «Sì, certo», risponde. Non ha capito. Poi ci stiamo rivestendo, mi chiede «Senti, l’altra volta ho dimenticato degli orecchini, ti ricordi?» Mi pare di sì, li avevo buttati in un vaso. «No ci tengo perché sono in ametista» Che cazzo è l’ametista? Guardo nel vaso, ci sono due paia di orecchini. Ahia. Uno più rossiccio, uno più violetto. Mi rifaccio la domanda, che cazzo è l’ametista? È più rossa o più violetta? Vado a caso. Rossa. «Sono… questi?», chiedo. Cambia improvvisamente espressione, lo sguardo diventa vitreo. Mi sa che ho sbagliato. «Ah, allora sono questi!», esclamo contento e sicuro di me.

Lunedì mattina.

“Senti ci ho pensato, mi piace un altro, è meglio se tra di noi finisce qui. Alessandra». Leggo due o tre volte l’sms, mi sento leggero come una piuma.

Oggi.

Clara mi guarda, dice «Ho capito, va, mi sa che te li regalo. Però mi offri un bicchiere di vino». Che donna, peccato che siamo troppo amici.

Dove vai in vacanza?

Pubblicato: agosto 4, 2014 in Dialoghi, Racconti
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Le dieci regole che gli italiani seguono nel scegliere la propria destinazione per le vacanze. Cosa cercano, cosa vogliono, cosa evitano, dai single incalliti alle famiglie con prole. Scopri quali sono!

«È un articolo, dettagliato. Vuoi saperle?», mi chiede Giorgio. «Ma chissenefrega», rispondo stizzito, mentre mi accorgo che un tizio ubriaco è rotolato sul bancone del bar fino a urtare e rovesciare la mia grappa e ora si sta vomitando sulle scarpe appena fuori dall’ingresso del locale. Non mi sembra il caso di andarmi a lamentare. A un tratto si avvicina uno spilungone sulla trentina con addosso una maglietta con scritto “I love milf”. Dice «Bella Giorgio!», e gli dà la mano in tre o quattro modi diversi. Giorgio chiede «Vi conoscete?», sto per rispondere di no ma il tizio mi anticipa, dice «Sì, di vista». «Sì, però non mi ricordo il tuo nome, sai lavorando in un locale parlo con un sacco di gente», rispondo. «Giusto», dice lui. «Comunque, io sono Alfredo, piacere». «Fabrizio», replico. Alfredo dice «Benissimo! Io sono Alfredo e tu sei Fabrizio». Lo guardo piuttosto male, se ne accorge, dice «Uh! Sì, sembra un po’ strano, è una formula e serve per ricordare i nomi quando ti presentano qualcuno. L’ho imparata a un corso di enhancement sociale che ho seguito a Milano due settimane fa» A questo punto vi sarete accorti che la prima frase sulle dieci regole era una trappola per farvi leggere qualcos’altro, visto che va molto di moda questa storia dei dieci motivi per cui, le venti cose che, eccetera. Già che ci sono vi chiederei di fare un bel “condividi l’articolo”, che a me fa sempre comodo e a voi non costa niente. Oggi dimostro di avere un po’ la faccia come il culo, ma ogni tanto ci sta. Anche Giorgio è in fissa con le dieci regole. Chiede a Alfredo «E tu le vuoi sapere?». Nel frattempo un altro individuo si unisce alla conversazione. Questo lo conosco, è Samuele, un personaggio di secondo piano, uno di quelli che ogni tanto incontri in giro la sera e dopo venti secondi hai esaurito ogni spunto di conversazione. Anche lui all’arrivo si sente in dovere di fare una specie di danza per salutare i presenti. Prima dà la mano normalmente, poi la gira con la stretta di pollice, poi fa il pugno che si deve colpire frontalmente, poi se lo batte sul cuore e finisce il valzer con un gesto a pollice in alto alla Fonzie. Secondo il suo punto di vista chi lo saluta dovrebbe avere imparato questa serie di mosse a scuola, nell’ora di educazione civica, o vedendo qualche video di rapper americani degli anni novanta, perché se uno sbaglia lui lo guarda male e si lamenta, dice «Ma noo, si fa così», costringendolo a ricominciare da capo. Per evitare l’assurda pantomima rubo al volo una coppa del nonno dal frigo dei gelati e inizio a mangiarla prima che tocchi a me subire questa tortura. Alfredo sta dicendo «Alfredo, piacere». Il tizio sostiene di chiamarsi Lorenzo. Naturalmente Alfredo non perde tempo. «Benissimo! Io sono Alfredo e tu sei Lorenzo», chiosa. Lorenzo non lo guarda male come il sottoscritto, in compenso inizia a tentare di insegnargli il saluto in cinque o sei mosse, che Alfredo impara subito, evidentemente è abituato. Giorgio continua a essere interessato alle vacanze, chiede «Oh, zio, te invece dove vai in ferie?», rivolgendosi a Lorenzo. Il tipo che vomitava rientra barcollando nel bar, mi rovescia la seconda grappa che avevo temporaneamente lasciato sul bancone per mangiare il gelato, e sviene. Inizio a innervosirmi. Lorenzo dice «vado a Londra». Giorgio si esalta «Ehi, lui va a Bristol», mi indica. Lorenzo fa un altro paio di mosse incomprensibili che nel linguaggio non verbale forse significano bella storia, perché mi dice «Figata, zio oh lasciami il numero che magari ci becchiamo». Lo zio in questo caso sono io. Questa sera mi tocca guardare male un sacco di gente. Dico «Senti, tu dove abiti?» «A Pavia», fa quello. «Allora», riprendo, «ci siamo mai messi d’accordo per uscire o fare qualcosa insieme io e te?». «No, non mi pare ecco». Inizia ad avere uno sguardo perplesso. Io lo incalzo «Ci sarà un motivo, no? E allora mi spieghi perché, andando in due citta che stanno a centosettanta chilometri di distanza dovremmo beccarci, quando non lo facciamo qui?» Il tizio è completamente basito, io sono un treno in corsa. «Anzi, te lo spiego meglio: ma sì dai becchiamoci, tra l’altro visto che andiamo verso nord e c’è l’amministratore del mio condominio che sarà in vacanza a Oslo, pensavo di passare un attimo a trovare anche lui, no? Che ne pensi?» Lorenzo ci resta male, forse sono stato troppo antipatico. «Dai, scherzavo», dico per stemperare. «Con chi vai?»

«Con Alessia F. e due altre nostre amiche»

Domando «Alessia F. QUELL’Alessia F. quell’incredibile fig.. ehm quella tua amica mora??»

«Sì», risponde lui.

«Ma non va con il suo ragazzo?»

«Si sono lasciati il mese scorso»

«Ah. No perché io vado con Miki e Simone ma sono tre settimane che gli dico che Bristol è una merda e Londra è molto ma molto meglio, sei d’accordo, no? Senti fa una cosa tu il numero lasciamelo va, che se cambiamo idea…»

La coerenza, prima di tutto.

Non Coppia

Pubblicato: aprile 18, 2014 in Racconti
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Mi siedo. Franco mi osserva in controluce, dice «Sei un po’ pallido» Come fai a saperlo, mi vedi in ombra, dico. «Però è vero. È carenza alimentare, sono due settimane che mi nutro solo con fagioli, ora ti risparmio i dettagli ma fa parte di un metodo di protesta collettiva non violenta nei confronti di uno dei miei coinquilini. E tu, piuttosto? Saranno due mesi che sei sparito»

Franco si muove sulla sedia come se soffrisse di piaghe da decubito al fondoschiena. «È che sto troppo tempo seduto. Sto sviluppando un’applicazione per android che trova l’acqua nel sottosuolo, come il bastone dei rabdomanti. Oggi dovrei iniziare a provarlo sul territorio, finora stavo al computer tutto il giorno»

«Ah, ecco», commento. Sembra siamo a corto di argomenti, abbiamo fame, il mio panino con i fagioli non arriva mai. Dico «Ah, sai chi ho visto? Marina, la ex del Nebo. Cioè, più o meno ex»

«E?»

«E mi dice Ciao Fabri tesoro come stai. Tesoro, mi ha detto. Ci avrò parlato tre volte, tesoro un cazzo, voglio dire»

«Sì i soliti atteggiamenti fuori luogo di certe donne che prendono, danno e tolgono confidenza con una bilancia dall’impostazione variabile in base al loro umore del momento senza prendere in considerazione l’altro, come se tutto funzionasse in base ai loro bioritmi», dice Franco mentre osserva il sedere della cameriera e annuisce con la mascella prognata, da attore porno.

«Va bè», commento. «Le chiedo se si era lasciata col Nebo, visto che non li avevo più visti insieme da un bel po’. E lei no, mi dice. No, nel senso che non erano mai stati insieme. Ora, a me fondamentalmente non me ne fregava un cazzo, le avevo fatto una domanda giusto così, la chiacchiera da bancone mentre stai aspettando la birra».

Franco si gratta il mento, poi il culo e poi si mangia un’unghia sputandola nel posacenere. «Un’altra specialità femminile, il revisionismo storico delle proprie vicende personali», chiosa.

«No ma ascolta», dico. «È partita con tutto questo discorso, mi ha chiesto perché, sembrava fossimo insieme, vero? Non sei certo il primo che me lo dice. E io le ho detto sì, obbiettivamente sì. E lei Certo, perché la gente ha tutta questa mania e necessità di catalogare le cose e le situazioni. Infatti è per questo che avevamo deciso di non stare insieme. Le persone catalogano e si fanno catalogare, solo per questo motivo si mettono insieme, poi le coppie inevitabilmente crollano. Ti faccio una domanda, mi dice. Quante storie hai avuto? Serie, intendo. E io ci penso, dico sei. Lei riprende. E sono naturalmente andate tutte a puttane. Ora, se fai un calcolo, nella vita di una persona ci sono mediamente otto storie importanti. Le prime sette vanno in vacca, l’ottava a volte funziona. È una media, chiaro. Quindi le storie che funzionano sono circa il dodici per cento del totale. Statisticamente se ti metti insieme a qualcuno sei destinato a un fallimento quasi certo. Io e Nebo non volevamo certo fare la stessa fine che fanno tutti, quindi abbiamo sviluppato il concetto di non-coppia»

Arriva la cameriera, panino con i fagioli per me e stinco di maiale per Franco. Mi scappa un peto, non riesco a trattenerlo ma copro il rumore spostando la sedia al momento giusto, faccio un sorriso alla ragazza. Vorrei riservare tutti i gas per il coinquilino, ma quando scappa scappa.

«Quindi non eravate insieme, le ho chiesto. Lei si è rabbuiata, mi ha guardato come se vedesse un imbecille vero per la prima volta in vita sua. Ha detto Io ti ho già inquadrato, a te. Sei uno di quelli che riportano ogni situazione su un binario già percorso. Siete insieme sì, siete insieme no, siete trombamici. No, cazzo. Eravamo una non-coppia, un concetto del tutto nuovo. Io lo amavo davvero e lui amava me. Prima di essere noi una non coppia lui era insieme a Isabella. Ovviamente si sono lasciati. Secondo te è più figa di me Isabella? Secondo me è un cesso.Hai presente Isabella?», ho chiesto a mia volta a Franco.

«Sì, il rigore a porta vuota. Gran figa»

«Sì, appunto. Anche Marina è bella, ma la domanda è ovviamente una domanda del cazzo. Poi se una mi dice che mi ha inquadrato mi fa venire il nervoso. Le ho risposto appunto di non fare domande del cazzo. Lei ha detto se mi dici così vuol dire che pensi sia più figa lei di me. Io non so come fate voi uomini appena una fa vedere un po’ di tette non capite più niente ma vabbè è nella vostra natura animalesca porca e voi preferite giocarci su queste cose invece di migliorarvi e poi è per questo che arrivate a quarant’anni senza avere concluso niente e noi donne non vi guardiamo più. Cazzi tuoi, comunque, continua a andare dietro a tipe come Isabella. Intanto il Nebo l’ha mollata per creare questo concetto di non-coppia con me. Le sta bene, a quella troia. Perchè, ti ha fatto qualcosa? No, mi dice, però ha quell’atteggiamento così, non la sopporto. Sì, le dico, ma io non ho capito bene questa storia della non coppia. Ma è troppo complesso, poi il concetto di partenza si è sviluppato, cioè la vita cambia e ti cambia. Poi è arrivato un figlio, Michael, e ci ha uniti tantissimo. Ah, avete avuto un bambino, le chiedo. E lei No! Io ho avuto un bambino, cioè nel periodo in cui ci eravamo non-lasciati sono rimasta incinta durante un raduno di gente un po’ fricchettona, non so di chi sia il bambino, che è una cosa fighissima se ci pensi perché è figlio della natura, è figlio di Nebo, della terra, di tutti»

«A me più che altro sembra figlio di mignotta», commenta Franco. «Che poi si dice che sono tutte mignotte tranne la mamma, ma la mia si dava da fare, quindi non c’è speranza, l’unica soluzione è evitarle come la peste». Programmare per cercare l’acqua sembra avere inselvatichito Franco, me lo ricordavo meno astioso.

«Va be, dico, quindi vi eravate non-lasciati il che significa che eravate svincolati l’uno dall’altra e le vostre vite potevano avere direzioni diverse, andare con altre persone. Ma no! mi dice ancora, se ci eravamo non-lasciati NON vuol dire che ci eravamo lasciati, la vuoi smettere di catalogare? Cazzo mi sembravi uno degli amici di Nebo più intelligenti invece non capisci niente. Ti va di baciarmi?»

«E tu cos’hai fatto?»

«Le ho chiesto se si erano non-lasciati un’altra volta. Lei mi ha risposto che il progetto di non-coppia aveva funzionato finché una volta lei lo aveva beccato in un bar che prendeva il caffè con un’altra, che quindi di conseguenza era un figlio di puttana perché non glielo aveva detto prima, e quindi lo aveva accannato, poi se ne è andata dandomi del finocchio»

«Sì. Tipico», dice Franco, che inizia a scaldarsi «Femmine! Che nervi madonna, come si fa a ragionare così? Lo vedi che sono pazze?» Intanto che parlava gli è suonato il telefono. Ha guardato e non ha risposto. «Il tipo del negozio della lista nozze, adesso no, lo chiamo stasera ma per forza che se mi dimentico Flaminia mi ammazza»

L’ho guardato con aria interrogativa.

«Perchè, non te l’ho detto che mi sposo tra quindici giorni?»

«No, credo di no», ho risposto.

 

Per amore, quasi solo per amore

Pubblicato: gennaio 10, 2014 in Racconti
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tunnel

Alice ha i capelli rossi e lunghi e ondulati è stata lei la prima persona che ho visto dopo avere varcato il cancelletto di ingresso ai condomìni bassi e tutti uguali tranne uno più alto e brutto in fondo dove ci sono i garage. Il cancelletto è di ferro dipinto di vernice grigia, anche intorno c’è una recinzione uguale ma è ricoperta di gelsomini che hanno un profumo incredibile e sono la prima cosa che mi fa rendere conto sul serio che la scuola è finita e io sono in vacanza. Mia mamma trascina alcune pesanti valigie, io con uno zainetto da mezzo chilo sulle spalle e in mano un sacchetto con dentro mele e banane mi sento orgoglioso e partecipe di uno sforzo comune. Poi lungo il vialetto che attraversa i condomìni, dove c’è uno spiazzo verde con il prato e due palme, in piedi di fianco alla panchina c’è questa ragazzina che ha i capelli lunghissimi e ondulati e le lentiggini e sta picchiettando una matita su un quaderno con aria assorta. Picchietta il retro della matita, quella parte dove c’è la piccola gomma rotonda rosa, la fa rimbalzare sulla pagina, poi con un movimento rapido la gira e scrive qualcosa, alza gli occhi e mi vede che la sto guardando. È un po’ più alta di me, non che ci voglia molto. Io vorrei salutarla e vorrei avere anch’io una valigia pesante in mano per far vedere almeno per qualche secondo che la porto senza sforzo ma in mano ho solo un sacchetto con la frutta e non so cosa dire, non mi vengono le parole. Mia mamma la saluta al posto mio, dice «Ciao». La ragazzina ci guarda, guarda più che altro me, ma dice «Buongiorno», un po’ sottovoce. Io dico «Ciao» e divento un po’ rosso e accelero il passo perchè ancora vorrei dire qualcosa ma non so cosa dire, non sono timido se rompo il piccolo muro di diffidenza iniziale ma all’inizio inizio sono una frana. L’appartamento è arancione, si trova al primo piano. Ci sono quadri alle pareti, li ha dipinti mia zia, la sorella di mia mamma. Sono quadri con fiori che sfumano nei capelli di una donna, motociclette e altri fiori, gialli viola e arancioni. Il tavolo è rotondo e ha il ripiano di vetro e le gambe di metallo luccicante. Il lampadario è di plastica arancione. Sui ripiani di un mobile ci sono alcuni fumetti, sono i miei, li avevo comperati quando ero stato qui, da piccolo. C’è anche un geco di gomma, mia mamma dice «Te lo ricordi il geco? Era il tuo preferito». A me dà fastidio questa sua decisione arbitraria su cosa fosse il mio gioco preferito, anche perchè adesso sono più grande e il geco di gomma mi sembra solo uno stupido geco di gomma e non mi ispira tutta questa fantasia. Però in un contenitore di terracotta ci sono degli oggetti molto più fighi, un coltellino svizzero, una piccola torcia, una pallina di gomma di quelle che rimbalzano benissimo. Li prendo tutti e li metto in tasca, saranno degli zii o di mio cugino che ogni tanto vengono qui per i fine settimana. Mia mamma mi chiede, «hai fame?»

Dico, voglio le trofie al pesto. Quelle me le ricordo bene, il profumo del basilico che si sente solo qui in liguria, i pinoli, mmm! Mi affaccio al balcone, da qui si vede la piscina di acqua dolce privata dei condomìni, ci sono due donne che prendono il sole sui lettini e un bambino piccolo che nuota con i braccioli. C’è il cartello con scritto in piscina è severamente vietato il gioco della palla. Che palle! Non vedo più la ragazzina con i capelli lunghi e rossi, da alcune finestre aperte di altre case si sentono rumori di pentole e donne che dicono, a tavola!

Le trofie sono buonissime e ne divoro due piatti, mia mamma dice «Hai visto che bella ragazzina? Potresti scendere a giocare con lei». Divento rosso un’altra volta solo al pensiero, mi immagino già di portarla con me a fare delle passeggiate lungo il torrente che scorre qui vicino, o magari addirittura prendere la corriera e andare insieme fino in città, dove c’è il mare e le sale giochi e le gelaterie. Dico, è andata via, lei dice tornerà vedrai. Dopo mangiato mi butto sul divano e leggo una storia dove Paperino incontra Archimede pitagorico che gli regala una macchina del tempo e viaggia nel futuro dove c’è un tiranno cattivissimo che ha schiavizzato tutta la popolazione e li ha messi in una miniera d’oro a scavare e ci sono anch’io nella miniera però riesco a fuggire e entrare nel palazzo che è un’astronave e lì libero la ragazzina dai capelli rossi e riusciamo a scappare con una capsula di salvataggio e atterrare su un pianeta dove ci sono delle piante giganti.

«Fede…

Federico!»

Apro gli occhi, mia mamma all’inizio è una pianta gigante poi è solo di nuovo mia mamma che mi dice «guarda che adesso ci sono i ragazzi in piscina, mettiti il costume e vai»

Come al solito mi faccio mille domande su cosa dirò, su chi sono “i ragazzi”, io che speravo ci fosse solo quella con i capelli rossi, su come chiedergli di stare con loro, ma è facile, appena varcato il cancelletto della piscina uno di loro mi dice «Ehi tu, vieni qui, chi sei?»

Sono in quattro. La ragazzina con i capelli rossi che si chiama Alice, poi c’è Leo che sembra essere il capo, è lui che mi ha chiamato. Poi c’è Pietro, grassottello e con la voce più acuta di quella di una bambina, e Tommy che mi sembra il più simpatico forse perchè mi somiglia e tifa per la Roma come me. Pietro è il più piccolo, Leo lo sta prendendo in giro, lo stuzzica ogni tanto calca un po’ la mano. Pietro non si aiuta, cerca di dire cose che lo mettano in buona luce ma manca il bersaglio e peggiora ulteriormente la situazione, dice «Io ho una piscina più bella di questa, a casa a Como». Leo gli chiede quanto è grande, Pietro dice «Boh, centoventisei metri». Ridiamo tutti, Leo gli dice «Sei un cretino». A un certo punto Pietro tira fuori dallo zaino una maglietta e se la infila dicendo che sua mamma non vuole che lui prenda troppo sole. Ci sono disegnati dei pesci con il suo nome e il segno zodiacale in latino, il risultato è che c’è scritto Pietro pisces. Poi tenta di spiegarci che è un’altra lingua, mentre noi ridiamo e gridiamo piscio piscio Pietro piscio. Ride anche Alice, anche se prova a dire «Dai smettetela poverino» Quando iniziamo a fare i tuffi lei ne fa un paio e poi si sdraia sul bordo della piscina, ci guarda e non ci guarda o fa finta di non guardarci. Noi li facciamo tutti per lei, sperando di fare colpo. Leo ha i muscoli, lui e Tommy fanno il tuffo di testa poi nuotano sott’acqua fino al fondo della piscina e tornano indietro sempre senza emergere a riprendere fiato, Tommy cede prima e a metà si ferma esce con il fiatone, Leo arriva fino in fondo e sbuca dall’acqua scrollando i capelli in modo studiato, dice «Visto?» guardando sempre lei.

Io mi tuffo facendo la verticale sul bordo della piscina, entro un po’ di schiena, quando esco Tommy dice, hai preso la schienata, io dico no no, Leo dice, eh no! Sì! C’è subito questa competizione tra galletti nel pollaio con le gerarchie in fase di definizione, Leo domina, Tommy gli sta un po’ dietro, Pietro è fuori dai giochi, io sono un’incognita dalla pericolosità ancora da valutare, Alice può farci fare quello che vuole.

Pietro non trova niente di meglio da fare che un tuffo a bomba, fa partire un sacco di schizzi, bagna anche una signora che sta prendendo il sole sul lettino. La signora si arrabbia, dice «Adesso basta, se non la smettete vi faccio sbattere fuori». Noi siamo vivi e bellissimi, la signora è una rompicoglioni, ma siamo troppo piccoli per sapere di avere ragione e per protestare e usciamo dall’acqua. Alice dice «Vado a casa a prendere i gelati, chi viene?» Tutti diciamo «Io», lei mi prende per un gomito dice «Viene Federico che è nuovo e non ha mai visto la mia casa»

Leo mi guarda furioso, è sfida aperta. Alla fine del pomeriggio i genitori ci richiamano tutti a fare la doccia e cenare, il papà di Pietro lo viene a prendere, gli chiede se si è divertito, lui dice «Sì». Leo mi dice di aspettare un attimo, rimaniamo da soli, penso che voglia trovare una scusa per picchiarmi, è troppo grosso non ce la posso fare. Invece mi fissa negli occhi e dice «Alice è la mia fidanzata, capito?». Io tengo gli occhi bassi, dico «A-ha». Lui non ha finito. «Ci siamo anche baciati l’altro giorno sulla panchina». Io dico «Ok», lui mi lascia andare, dopo che mi sono allontanato di qualche passo mi grida «Stai attento».

La mattina dopo c’è tempo brutto e non si può andare al mare. Mia mamma mi dà qualche soldo e mi manda al supermercato a comprare dei pomodori e dell’arrosto di maiale, dice «Da piccolo ti piaceva, ti ricordi che facevamo i panini e li mangiavi quando andavamo al parco quello dove c’è il ponte tibetano?» Io me lo ricordo, non era un ponte tibetano era un ponte con le assi di legno ma sospeso con delle catene, mi sembrava enorme e avventurosissimo, probabilmente era alto da terra un metro e un cazzo, ma a quel tempo mi piaceva davvero, mi sembrava di essere Indiana Jones.

Mentre sto tornando a casa con la borsa della spesa incontro Leo e Pietro. Leo mi chiama. Dice «Ieri eri in prova come amico, ma oggi devi fare il test più importante, quello per vedere se sei un fifone o no. Noi non ne vogliamo di fifoni». Penso ecco lo sapevo, dico «io non sono un fifone», senza sapere cosa mi aspetti. Scendiamo nei garage, in fondo c’è un vecchio corridoio che porta a un’unica cantina che evidentemente non ha trovato spazio dove ci sono le altre, c’è poca luce e odore di umido, forse perchè nella notte ha piovuto. A un certo punto vedo un’apertura di circa un metro di diametro, quadrata, chiusa da un pannello di ferro. Leo lo apre con la chiave, dice «È qui che si fa la prova. L’ha fatta anche Pietro, quindi la devi fare anche tu. Qui in questa galleria, a un certo punto c’è un pallone, ce l’ho tirato io. Tu devi entrare e portare indietro il pallone»

Dico «Mi sembra facile». Non mi piace per niente. Pietro ha un brivido, con la sua vocina acuta dice «Sì ma saranno cento metri, poi ci sono le pantegane». Il senso delle misure di Pietro non mi preoccupa, cento metri detti da lui potrebbero essere quattro. Le pantegane mi inquietano leggermente di più. Non voglio farmi vedere spaventato, dico «Tutto qui?», mi accovaccio e entro nella galleria quasi buia.

Dopo qualche metro la visibilità scende quasi a zero, è un posto veramente ansiogeno, so che da dietro mi stanno osservando e non mi volto, ma non capisco quanta strada sto facendo. Cerco di avanzare con cautela per evitare di urtare per sbaglio il pallone e farlo rotolare ancora più lontano, tendo le orecchie per sentire se qualche creatura del buio si stia muovendo vicino a me, temo di sentire degli squittìi. A un certo punto sento un rumore di una cosa metallica che si chiude, e lo scatto di una serratura, e all’improvviso il buio è totale. Mi volto e… mi hanno chiuso dentro! Non ci posso credere, punto verso l’unico spiraglio di flebile luce che i miei occhi riescono a scorgere dopo qualche secondo, torno indietro il più velocemente possibile, raggiungo il pannello di ferro, spingo, cazzo è chiuso davvero. Cerco di non farmi sentire agitato, dico «Dai che scherzo è?» «Oh aprite» Niente. «Dai così non vale non posso vedere niente» «Ooooh!» Niente. Busso. Niente. «Ma siete stronzi?» «Aprite!» Niente. Ho il respiro accelerato e il cuore che batte a mille, cerco di calmarmi, lascio passare qualche secondo, alzo il volume della voce. «Ehiii!!». «Dai cazzo aprite!». Niente. Ho la brutta sensazione che di qui non ci passi nessuno, a parte il padrone di quella cantina se sono fortunato, ma per quanto ne so potrebbe anche essere in vacanza o non scendere per giorni. Aspetto. Ho paura. Razionalmente so che non possono lasciarmi lì, ci sono mille motivi validi non sono in un film horror sono nelle cantine della casa del mare e c’è mia mamma che se non mi vede tornare scatenerà l’inferno, ma ho paura lo stesso, e sento squittire. Non so se me lo immagino, ma lo sento. Provo a gridare ancora, niente. Poi mi ricordo di avere la piccola torcia in tasca, la prendo spero che si accenda… Sì! Improvvisamente ci vedo. Non c’è nessun pallone nel tunnel. Non c’è niente di niente. Avanzo timoroso di incontrare topi o creature mostruose dei tunnel bui ma non c’è nulla, solo questa lunga galleria piena di curve a gomito, sembra non finire mai. A un certo punto mi ritrovo in un vicolo cieco, torno indietro, vedo che la galleria prosegue anche in un’altra direzione di cui non mi ero accorto. Mi sembra di essere lì dentro da ore, poi vedo una luce, un altro pannello uguale a quello dall’altro lato, è socchiuso, esco. Sto per girare l’angolo di uno dei condomìni, sento delle voci, è Alice. Mi fermo e ascolto.

«Non c’è»

«Hai gridato?» dice qualcuno mi sembra Tommy.

«Sì»

«…»

«Tu sei tutto scemo», dice di nuovo Alice.

«Oh era uno scherzo, solo che le chiavi le ho date a mio papà che è amministratore e adesso è in ufficio»

«Tu sei proprio tutto scemo»

«Cosa facciamo adesso?» chiede Pietro.

«Tu stai zitto che sei scemo quanto lui»

Ho sentito abbastanza, giro l’angolo. Sembra che Leo e Pietro vedano un fantasma. Alice corre, grida, Feeedeeee!, corre, mi abraccia, mi bacia una guancia poi l’altra poi il naso, ha le lacrime agli occhi, mi dà un bacio sulle labbra.

Tommy dice «Io non sapevo niente»

Io sono intontito dall’entusiasmo di Alice, il cuore mi batte più forte di prima ma non ho più paura. Faccio l’indifferente, mi riesce benissimo perchè sono ringalluzzito dai baci. Dico «Niente di cosa? Era una prova stupida, comunque. Il pallone non c’era»

Prendo Alice per la mano, le dico «Vieni, mia mamma ti ha invitata per pranzo». Non è vero, ma lei viene, e il resto non conta più niente.

Halloween sarebbe venuto dopo

Pubblicato: novembre 5, 2013 in Racconti
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halloween

 

Il giorno dei morti andavamo sempre a fare una visita ai nostri cari passati a miglior vita. È passato molto tempo, Halloween sarebbe venuto dopo. C’era sempre un tempo di merda, uguale tutti gli anni. Pioggerellina pungente e fastidiosa, mezz’ora di pausa con disco del sole talmente filtrato che lo potevi guardare negli occhi senza diventare cieco, di nuovo pioggerellina. I miei cari estinti erano disseminati come la gramigna, in pratica ce n’era uno per camposanto. Ogni cimitero distava almeno trenta chilometri da tutti gli altri. Di fatto erano tutte persone a me ignote, guardavo le date: N 1876 M 1949. Questo era il nonno, diceva mia nonna. Sì, il tuo, mica il mio. Il mio era impegnato a bestemmiare cercando di non farsi sentire troppo perchè era stato costretto a pagare il pizzo al guardiano del cimitero, che altrimenti sa dottore, di notte arrivano dei balordi e rubano i fiori. Il particolare curioso è che i fiori li rubavano solo a quelli che non si facevano spillare diecimila lire da quell’ometto dalla faccia grassa, che mio nonno chiamava maiale schifoso lui e sua figlia che lo sanno anche i muri che batte. Questo era un modo particolarmente lungo per chiamare qualcuno, ma non ho mai sentito mio nonno riferirsi a quell’uomo in modo diverso. Quindi forse era il suo cognome, pensavo. Come i nobili, che spesso hanno cognomi infiniti. Forse era un conte, il guardiano del cimitero. Di sicuro se lo era, era caduto piuttosto in basso. Le donne di famiglia invece dicevano le preghiere in latino, magari lo facevano per darsi un tono, per far vedere che erano fighe e la nostra era una famiglia di gente che aveva studiato, boh io non capivo niente di quello che dicevano cantilenando. Requiem aeternam bla bla domine bla bla bla bla bla requiem aeternam eccetera eccetera. Poi si rompevano le palle e iniziavano a parlare dei fiori. Di solito dicevano che il giorno prima era passata la zia quella antipatica e aveva messo i fiori brutti. Puntualmente qualcuna diceva «Ero venuta la settimana scorsa e avevo messo delle margheritone gialle e arancioni che stavano benissimo, è arrivata lei e le ha tolte per mettere questo schifo. Avevo speso anche trentacinquemila lire»

La foto di un bisnonno le fissava come per dire «Ma sticazzi?»

Mio nonno era convinto di sapere chi fosse il vero colpevole. Cercava con lo sguardo il guardiano e diceva «L’è stai cul là». È stato quello là.

Il cimitero che temevo di più era l’ultimo del giro, quello dove c’era la Concetta. La Concetta non era una mia parente. Non era neanche morta, a dire il vero. Era una vecchia balena ingioiellata che si materializzava in modo inspiegabile tutte le volte che stavamo per andarcene. Io ogni anno credevo di averla scampata, vedevo che stavamo finalmente per superare i cancelli e tornare alle macchine, e lei BAM, si piazzava in mezzo occupando tutto il passaggio, vedeva mia nonna, assumeva una posa contrita, studiata e perfezionata con secoli di allenamento e con quella voce squillante gridava «Ooooh, signora Nina!»

Mia nonna era tutta contenta, anche se non lo avrebbe mai ammesso. La Concetta le trottava incontro, dopodichè attaccava un pippone interminabile in cui per prima cosa elencava tutti i morti dell’anno del paese, compresi i dettagli dei loro ultimi giorni. Prima di passare al soggetto successivo dicevano «pover’uomo» o «povera donna». Di solito ce n’erano almeno un paio che avevano due o tre figli, i quali adesso litigavano per l’eredità e non si parlavano più. Si discuteva di ogni singolo caso finchè non si era stabilito chi avesse ragione. Poi si passava a parlare dei vivi. «Ma lo sa del salumiere?» «Ma no, cosa gli è successo?» La voce si abbassava. «Suo figlio è un drogato». La parola drogato era sussurrata, appena percettibile. Poi c’era quella che era rimasta incinta senza essere neanche sposata e quello che aveva mollato moglie e figli e era scappato con una brasiliana di vent’anni. Nel frattempo, intorno, si fermavano alcune cariatidi che si domandavano a vicenda «Allora, come va?» e rispondevano «Eh, tiriamo avanti». Quelli che l’anno prima c’erano e quell’anno non si vedevano più, probabilmente invece di tirare avanti avevano tirato le cuoia. In alcuni casi mia mamma diceva «Saluta il signore». Io non volevo. Mi aggrappavo a mio papà e lo trascinavo fuori, verso l’auto. Lui mi era estremamente grato di averlo portato via. Diceva «Mamma mia! È noiosa la Concetta, eh?» Io rispondevo soffiando e gonfiando le guance. «Pfffffff». Oggi mi sarei espresso in modo più colorito. Lui l’avrebbe fatto anche allora, si tratteneva perchè ero un bambino. Poi arrivava mio nonno, ci raggiungeva nel parcheggio seguito da un paio di zii. Delle signore neanche l’ombra. Mio nonno si faceva qualche problema in meno, in merito al linguaggio da utilizzare in presenza di bambini. «Se incontrano un’altra rompicoglioni io le pianto qui, purcasa d’un mond» (porcaccio di un mondo)

Ma non ne incontravano più. Tornavano, salivano in macchina, qualche zia diceva «Ma hai visto la moglie del sindaco com’era vestita?»

«Che cattivo gusto»

«Con quei colori poi, e le scarpe. Pensava di andare a ballare?»

«Il giorno dei morti»

«Senza rispetto»

«Non si può»

«Che gente. Si vede proprio che è un’arricchita»

«Che gente»

Ci sono tornato, dopo mille anni. La maggior parte dei protagonisti di questa vicenda erano passati dal ruolo di visitatori a quello meno allegro di visitati. Verso l’uscita ho chiesto a mio papà «Ma non è che ci spunta fuori la Concetta?»

Ha sorriso, ha detto «Ma sarà morta vent’anni fa»

Mia mamma ha fatto una proposta «Però potremmo andare a trovare la befana»

La befana abitava poco distante, ai tempi era una delle cariatidi che facevano gruppo nei pressi di mia nonna e della Concetta, anche se a mio parere doveva essere stata mummificata prima della costruzione del muro di Berlino. Già quando la vedevo da bambino cercava di pettinarsi come Doris Day ma avrà avuto ottant’anni. A quanto pare doveva essere ancora viva e avere passato il secolo da tempo.

Ho detto «Perchè no?», annuendo convinto.

Mio papà ha strabuzzato gli occhi. «Ma sei diventato matto?»

Ci siamo guardati tutti e tre e ci siamo messi a ridere, poi mia mamma si è fatta un po’ più seria, ha cambiato argomento «Guarda che io e papà vorremmo un nipotino»

Oh figa, così all’improvviso? Cioè venti o trenta righe fa ero lì di fianco a mia nonna a sorbirmi i pipponi della Concetta e adesso tocca già a me a fare i bambini?

Ho detto «Dai magari con l’anno prossimo inizio a cercare la fidanzata. Non nel senso di una che è già fidanzata, una libera intendo dire, cioè diventa fidanzata dopo, che non è che vai da una e le dici “Oh, tu sei fidanzata?” e lei ti dice di sì e tu pensi “Oooh vai l’ho trovata”. E invece no. È fatto apposta per confonderti. Sono la chiesa, i cattolici, i preti, loro ci giocano su quelle cose lì, così la gente cerca direttamente di sposarsi, infatti i termini sposata e moglie sono diversi, in modo che se cerchi moglie non ti confondi. Tu devi essere più furbo, c’è tutto un meccanismo dietro: ne trovi una, lei ti dice che no, non è fidanzata, e tu allora capisci che va bene. Ma per un po’ devi far finta che non ti piace, così lei capisce che vai bene tu. E ancora tutta una serie di cose complicate che non sto qui a spiegarti tanto non capiresti. Oppure potrei affittare una cicogna al posto della fidanzata, che i bambini li portano pure loro, però sai com’è, con sta crisi, poi devi dare da mangiare al bambino e pure la cicogna che fai, la fai morire di fame? Rischio che il movimento animalista magari si incazza e mi dà dello sfruttatore di cicogne. Forse è meglio cercare sotto il cavolo che è pure di stagione, però ora come ora dovrei abituarmi un po’ all’idea e poi mi è venuta pure questa fastidiosa allergia alle brassicacee e non vorrei che mi avvicino ai cavoli e mi riempio di bolle poi trovo il bambino e questo mi vede e dice “Marò! Un mostro” e si mette a piangere, quindi guarda aspetterei almeno l’altr’anno, ecco»

Mia mamma mi ha guardato. Abbastanza male. Mi ha detto «Lo so benissimo come funziona. Io ci sono passata. Purtroppo ho fatto un figlio cretino»

In parole povere

Pubblicato: luglio 12, 2013 in Racconti
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didieargo

«Se c’è una cosa che non riesco a capire e a giustificare è questa smania forzata di conoscenza, di andare oltre, che abbiamo noi esseri umani» disse Danilo Merenda, mentre teneva banco in attesa del suo turno dal barbiere.

«Quello che ci hanno insegnato a scuola andava bene per vivere, alla grande. È vero o no?»

«Verissimo», si affrettò a rispondere Giulio Maldi, annuendo vigorosamente con il capo mentre il barbiere gli stava rifinendo una basetta, procurandosi così un taglio all’orecchio. «Non c’è problema» disse Giulio Maldi. Era titolare di un negozio di formaggi nel centro città, e si preoccupava di non dare mai torto a nessuno per paura di perdere potenziali clienti.

Danilo Merenda continuò «Avete letto l’ultimo libro di Giorgio Grungo?»

Nel negozio si levò un coro di “No!”. Giorgio Grungo era uno scrittore che vendeva più o meno trenta copie di ogni libro che si autoproduceva e stampava, secondo Danilo Merenda era un genio assoluto degno del nobel per la letteratura.

«Ma lo conoscete, spero!»

Tutti tacquero imbarazzati, ognuno riflettendo sulle proprie lacune in campo letterario. Solo Giulio Maldi, che pure non aveva mai sentito nominare lo scrittore, non perse occasione di dire «Certamente!», per dare un po’ di soddisfazione al Merenda. Così facendo annuì di nuovo in modo esagerato, facendosi rasare a zero una parte dei capelli dal barbiere, che in quel momento gli stava aggiustando il retro del collo.

«Ma stia fermo!» esclamò quest’ultimo.

«Oh mi scusi»

«Adesso cosa facciamo?», chiese il barbiere. «Credo resti solo il taglio da moicano, per aggiustare questa situazione»

«Ottimo, facciamolo», disse Giulio Maldi, felice che la discussione si fosse spostata sui suoi capelli, evitandogli così domande imbarazzanti sulla bibliografia di Giorgio Grungo.

Non aveva idea di cosa fosse il taglio da moicano.

«Ad ogni modo», proseguì Danilo Merenda «il libro parla di un paese in cui gli abitanti fanno tutti o il contadino o l’allevatore. Sono tutti felici per millenni, scambiandosi gli ortaggi con le carni e i formaggi, tutti sono ben nutriti e hanno figli che crescono sani e robusti. Finchè un giorno un ragazzo decide che vuole fare l’imbianchino, perchè le case sono tutte di legno scuro e lui vuole renderle più colorate. Va in città e compera la pittura bianca. Il primo lavoro gli viene commissionato da un allevatore che ha la casa esattamente in mezzo al paese, e lui la dipinge tutta di bianco, compreso il tetto. Sfortuna vuole che dopo un giorno passi di lì un caccia alieno di addestramento il cui pilota scambia il paese scuro con la casa bianca in mezzo per uno dei bersagli su cui si doveva allenare e gli spara contro una bomba nucleare. Addio paese!»

Danilo Merenda si fermò, guardò tutti negli occhi uno per uno, e chiese «Bene signori, qual è la morale?»

Un signore grasso disse «Io ho sentito dire che ci sono delle cliniche dove fanno lo sbiancamento anale. Ci sono vicino? Ho indovinato?»

Lasciamo stare temporaneamente questi signori e cerchiamo di capire cosa stava succedendo: riporterò parte di un discorso fatto con Andrea Forni, del comitato nazionale anti traduzione (CNAT). Si lamentava dell’hybris umana, con i suoi toni paventava la fine del mondo ormai prossima. Il problema era che alcuni ricercatori dell’Università di Pavia pareva avessero inventato una macchinetta che, applicata sul collare di un cane, lo rendeva in grado di conversare con gli uomini, traducendo il suo abbaiare in parole e rendendo a lui comprensibile il linguaggio umano. Il lancio sul mercato era previsto per il lunedì successivo. Naturalmente questa notizia aveva scatenato ogni genere di reazione in tutto il mondo. Per esempio c’era chi si domandava se, acquisita la parola, i cani dovessero anche avere diritto al voto, o a essere candidati alle elezioni. In certi ambienti di destra correva voce che i comunisti volessero far parlare i cani per accaparrarsi così le loro preferenze elettorali.

Andrea Forni diceva «Siamo andati troppo in là. Ma le leggete le notizie? C’è quel pazzo che vuole creare addirittura Tele Cane, un canale digitale con trasmissioni condotte da cani e con in sala pubblico a quattro zampe. Poi diamogli anche le armi, già che ci siamo. È tutta colpa degli americani, date retta a me». Se qualcuno gli faceva notare che la scoperta era tutta di marca italiana si irritava, diceva «Sì, e gli asini volano».

Il sindaco di Pavia, l’avvocato Maltagliati, gongolava. Aveva pagato un’agenzia giapponese per organizzare l’evento di presentazione ufficiale, stavano trasformando piazza della Vittoria in un enorme giardino zen con terra e alberi portati direttamente dalle campagne di Hokkaido. Per raccogliere i fondi il sindaco aveva aumentato del trecento per cento gli ausiliari del traffico, che ora giravano in branchi di quindici o venti, appioppando multe come se non ci fosse un domani. Aveva ricevuto offerte dalle maggiori televisioni del globo per trasmettere l’evento in mondovisione ma aveva deciso di dare l’esclusiva a Rete Pavia Sud, un’emittente locale di sua proprietà. Ogni città era tappezzata di pubblicità: “Vocal-dog, e il cane sarà davvero il migliore amico dell’uomo”, diceva lo slogan. Vocal-dog era il nome del portentoso aggeggio. Se il fatto che fosse il sindaco a decidere su questi argomenti vi sembra che non abbia senso, ricordate che state leggendo un racconto su una macchina che fa parlare i cani, e che comunque decido io quindi faccio come mi pare.

L’assistente del sindaco, la signora De Luca, si trovava in una situazione assai scomoda. Non solo doveva tenere le fila dell’organizzazione di tutta la manifestazione, ma aveva una situazione spinosa da affrontare in famiglia. Tutto aveva avuto origine un paio d’anni prima, quando era inciampata sulle scale, un giorno, tornando a casa con molte borse cariche di acquisti. Nel tentativo di salvare la spesa era finita con la faccia contro la maniglia di una porta e le erano saltati due denti. Il dentista le aveva detto che sarebbero stati necessari due impianti. L’impianto è una vite in titanio che serve a sorreggere una capsula, che non è altro che un dente finto. Una soluzione di grande affidabilità, ma dal costo spropositato. La signora De Luca aveva pensato bene di cercare di ridurre i costi dell’operazione concedendo le sue grazie al dentista, che era uno scapolo incallito noto per essere un mezzo maniaco sessuale. Per una curiosa coincidenza il dentista era il signore grasso che dal barbiere parlava con Danilo Merenda di libri e sbiancamenti anali. La signora De Luca aveva approfittato del fatto che il marito fosse spesso via di casa per lavoro per intere settimane, e aveva quindi copulato allegramente con il dentista in salotto davanti a Tobia, il Beagle del signor De Luca. Il fatto che il nome di questa razza di cani in italiano si pronunci bigol non deve farvi pensare a stupidi doppi sensi, se succede sappiate che è umorismo triviale. La signora De Luca aveva ricevuto uno sconto eccezionale, e ancor peggio l’esperienza le era piaciuta parecchio, per cui Tobia si era visto entrare in casa, nei mesi successivi, avvocati, idraulici, elettricisti, giardinieri, commessi viaggiatori, pittori, imbianchini, estetiste e persino Giulio Maldi. Quest’ultimo si era anche affezionato a Tobia e gli portava sempre un bel pezzettone di gorgonzola per distrarlo mentre lui copulava con la signora. Bisogna ammettere che il sistema era piuttosto efficace. Altri “visitatori” erano stati meno furbi e fortunati: un imbianchino era stato anche morso a una chiappa e aveva dovuto essere medicato.

Ne aveva da raccontare il piccolo Tobia!

Nei giorni precedenti la grande cerimonia la signora De Luca, che di nome faceva Alessia, era preoccupatissima e intenta a studiare un sistema per salvare il proprio matrimonio.

Di uccidere Tobia per metterlo per sempre a tacere, non se ne parlava nemmeno. Alessia non era certo un’assassina. Aveva pensato di accannarlo sull’autostrada, ma non le era parsa una grande idea. Tanto più che con l’avvento del maledetto Vocal-dog il buon Tobia avrebbe potuto chiedere informazioni per tornare a casa e forse anche denunciarla per abbandono. Si trovava in una situazione disperata. Mercoledì sera fu invitata a cena da un’ex collega, Alda. Si trattava di una cena tra donne, tutte ex colleghe che avevano lavorato in un ufficio di una fabbrica di maglieria. Alessia si era presentata in anticipo perchè il signor De Luca come al solito era via per lavoro, e lei non riusciva a stare in casa un minuto di più, continuava a girare a vuoto tra una stanza e l’altra senza fare niente, continuava a pensare a come avrebbe potuto risolvere la situazione. E mancavano solo cinque giorni alla presentazione in mondovisione del Vocal-dog!

Alda era zitella, non usciva molto spesso, anzi quasi mai. Trascorreva le serate davanti al televisore, lavorando a maglia. A tavola iniziò a lamentarsi delle ultime edizioni del festival di Sanremo.

«Non mi piace più, ci sono troppi ospiti stranieri», disse.

Gianna, una biondina secca secca disse «A me piaceva quando lo presentava Pippo Baudo»

Alessia chiese «Chi ha vinto quest’anno?»

Gianna disse «Mengoni. È tanto un bel ragazzo!»

«Io preferisco Al Bano» disse Matilde, una donnona di origini pugliesi.

Alessia disse «Io mi sono stufata di guardare la televisione, comunque. Fanno sempre vedere quei film dove c’è troppa violenza. Preferisco leggere un bel libro»

Alda disse «Io ne ho appena finito uno molto bello. È di Giorgio Grungo. Lo conoscete?»

Ovviamente nessuna di loro lo conosceva.

«È un saggio, un manuale con tanti cenni storici, molto interessante», continuò.

«Parla della memoria. Suggerisce anche alcuni sistemi su come cancellare eventi dalla memoria. Per esempio, se volete cancellare il ricordo di una brutta figura dovete preparare una bevanda con degli ingredienti che adesso non mi ricordo più e insieme va tritato un pezzettino di stoffa, preso da un indumento della persona con cui avete fatto la figuraccia. Ma lo sapevate che Napoleone non si ricordava mai il nome del suo cavallo? Doveva sempre chiederlo a uno dei suoi generali»

«Pazzesco», disse Gianna.

«Insomma, io ho provato a dimenticare una cosa, facendo una di queste bevande», proseguì Alda.

«Cosa volevi dimenticare?» chiese Matilde.

«Non lo so, non mi ricordo» rispose Alda.

«Ma allora funziona! Me lo presti?» esclamò Alessia, esaltatissima, mentre già si vedeva impegnata a preparare beveroni per il cane Tobia.

In realtà il ricordo di Alda era stato cancellato dall’arteriosclerosi. Nessuna delle ricette di quel libro funzionava, infatti Giorgio Grungo le aveva inventate a casaccio. Aveva un paio di mesi di arretrato dell’affitto da pagare, quindi nel tentativo di vendere qualcosa in più del solito aveva temporaneamente abbandonato i romanzi per scrivere quell’improbabile manuale, farcito di notizie inventate sul momento senza nessun riferimento e senza nessuna fonte. Vi erano citati esempi di persone famose che avevano avuto problemi di memoria, ma erano tutti morti e sepolti da secoli quindi nessuno si sarebbe lamentato se non era vero. Le basi teoriche erano descritte come non meglio specificati “studi delle università americane”, insomma il libro era il risultato di un delirio dell’autore scritto per di più al freddo perchè gli avevano staccato il gas e sotto l’effetto dell’alcol bevuto per scaldarsi, a forza di bicchieri della vodka del discount.

Il giorno della presentazione ufficiale del Vocal-dog, piazza della Vittoria era invasa da persone provenienti da ogni parte del mondo. Il sindaco Maltagliati, in piedi su un palco costruito a forma di pagoda dalla ditta giapponese apposta per l’occasione, dispensava sorrisi come se l’apparecchio l’avesse inventato lui, offrendo il profilo migliore ai giornalisti e ai fotografi e facendosi ritrarre abbracciato al capo dello stato, giunto da Roma per l’occasione. Molti erano accorsi con i loro cani, sperando di essere sorteggiati tra i fortunati che avrebbero potuto fare la prova con il Vocal-dog quel giorno stesso. Tutti avevano lasciato i loro dati a una serie di impiegate posizionate in un chiosco vicino a un ruscello, entrambi realizzati per l’occasione dalla ditta giapponese. Le impiegate avevano inserito i dati in un computer, e presto sarebbe stato il momento dell’estrazione. Giulio Maldi era riuscito a trovare un posto in seconda fila. Seduto con in braccio il suo Puki, un bassotto vecchissimo, sperava di sentirlo parlare almeno una volta e voleva chiedergli qual era il suo formaggio preferito. Per l’emozione si era anche dimenticato a casa il cappello, dal quale non si separava mai dopo avere scoperto sulla propria testa cosa fosse il taglio da Moicano.

Il sindaco iniziò il suo discorso dicendo «Oggi è un grande giorno per l’umanità e per la caninità», quindi mi sento di risparmiarvi il resto dell’orazione senza problemi, arrivando direttamente a quando lesse i nomi dei sorteggiati da uno schermo gigante.

«Il primo estratto è Marco Pisani, di Ferrara, con il suo cane Zimba»

Ci fu un grande applauso, Marco Pisani salì sul palco con il cane Zimba.

La seconda estratta è Amelie Lefebvre, di Bordeaux, con il cane Ziggy.

Anche loro salirono sul palco, seguiti da Luigi Gargiulo con il cane Igor e da Manuela Sacchi con il cane Pink Floyd. Mancava solo l’ultimo estratto. Giulio Maldi incrociò le dita, ma non fu fortunato. Venne sorteggiato Piermario De Luca, con il cane Tobia. Alessia non si era nemmeno accorta che suo marito avesse portato il cane alla manifestazione, ebbe un tuffo al cuore. Se il beverone realizzato secondo le istruzioni del libro di Giorgio Grungo non aveva funzionato, era una donna morta. Il momento di scoprirlo era arrivato più in fretta del previsto. Quando tutti i cinque sorteggiati furono sul palco con i loro amici a quattro zampe, alcuni addetti iniziarono a montare i Vocal-dog, applicandoli ai collari.

Poi il sindaco iniziò a parlare con i cani. «Avvicinatevi, cari amici cani», disse. I cani si avvicinarono. La gente in piazza diceva «oooh», con meraviglia e stupore. Fu Zimba a parlare per primo. Disse «Bau. Senti sindaco, prima che riprendi a dire altre cazzate, io parlo credo a nome di tutti noi. Sei un coglione, tu e tutti voi in piazza. Noi non abbiamo voglia di capire quello che dite. Quindi toglieteci queste cazzo di macchinette dal collo. Che oltretutto mi sta venendo un mal di testa assurdo da quando me l’avete messa. Voi non avete mal di testa?» chiese agli altri cani. «Dio uomo», disse Igor. «Di brutto» Tobia disse «Sì anch’io. Però prima di togliere la macchinetta volevo dire che la moglie del mio padrone è una troia e se la fa con tutti anche con quel tizio lì in seconda fila con i capelli assurdi che però ringrazio per il gorgonzola. Porca miseria fa troppo male la testa».

Dopodichè tutte le teste dei cinque cani scoppiarono all’unisono distribuendo materia grigia e ossa e denti e sangue e occhi addosso a tutti i presenti.

Era stato un difetto di fabbricazione, un modello difettoso, un incidente. Non sarebbe mai più accaduto, assicurarono i ricercatori. I soldi per completare il progetto con un modello nuovo non gli vennero mai stanziati, e il Vocal-dog venne abbandonato. Alessia De Luca divorziò dal marito e iniziò a recitare in film pornografici. Sì, anche con i cani, lo so che qualcuno se lo stava chiedendo. Il sindaco Maltagliati perse un occhio perchè un dente di Pink Floyd gli si fiondò nella cornea come un missile. Giorgio Grungo, che era presente anche se non aveva un cane, scrisse un romanzo sugli eventi di quel giorno. Vendette quarantaquattro copie, il suo record. Giulio Maldi, ancora oggi, si domanda se il suo bassotto preferisca il gorgonzola o il provolone o chissà, forse la mozzarella.

Il panerone?

Il primo sale?

Il taleggio, può essere.

Però mangia volentieri anche lo sbrinz.

E il pecorino.

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P.S. qui di riferimenti a Kurt Vonnegut ce ne sono diversi. E sono tutti voluti.